L’ANALISI: Essere ‘bearish’ oggi comporta la perdita di limitati guadagni ma protegge il capitale attuale
In ottobre aumentano gli economisti che pronosticano una recessione USA
Da fine settembre a venerdì scorso si è assistito ad un ulteriore tentativo di rimbalzo da parte della locomotiva azionaria globale, ovvero lo S&P500 e con esso dell’intero mercato azionario mondiale. L’indice americano dopo aver quasi ritestato i minimi di fine agosto nelle ultime sedute di settembre ha reagito alla situazione di ipervenduto come allora, ossia con un impetuoso rimbalzo di ben 7 sedute positive su 8. Un risultato che questa volta appare però essere molto più gradito a tanti operatori in quanto si è potuto recuperare un livello “psicologico” importante proprio sul finale di settimana, ovvero la cosiddetta media mobile a 50 giorni.
Il quadro cosiddetto “tecnico” nella realtà permane ancora molto incerto, non fosse altro per quella fase laterale in cui oscilla da più di un mese l’indice americano e che viene confermato dall’estremo nervosismo che deriva dal logorante braccio di ferro tra rialzisti e ribassisti in seguito alla formazione della “croce della morte”, ovvero un noto segnale grafico che ha allertato non pochi operatori (incrocio tra media mobile a 50 gg e 200gg).
‘BAD NEWS ARE GOOD NEWS’
La chiave di lettura prevalentemente e spesso proposta ai risparmiatori per quest’ultimo movimento sembra rispondere perlopiù al concetto delle “bad news are good news”, ovvero tanto peggiori sono le notizie e tanto migliore è la reazione dei mercati finanziari in quanto ciò favorirebbe il mantenimento dello status quo da parte dei banchieri centrali.
Di recente non sono certamente mancati crescenti allarmismi da parte di molteplici policy maker, dalla Banca dei Regolamenti Internazionali fino all’Onu ed ultimo, in ordine di apparizione, è stato quello lanciato nei giorni scorsi dal Fondo Monetario Internazionale con le sue previsioni di crescita globale riviste al ribasso sia per il 2015 che per il 2016 ed il ripetuto appello all’accresciuto rischio di instabilità finanziaria insito nei mercati emergenti, nel crollo delle commodity e nell’illiquidità del sistema.
Rischi ormai ripetuti quasi allo sfinimento da mesi ma che trovano forse nelle parole di Andy Aldane, capo economista della Banca d’Inghilterra, la sintesi migliore del pensiero dell’establishment finanziario, ovvero e come sentenziato su The Guardian: “i recenti avvenimenti formano l’ultima gamba di quello che si potrebbe chiamare una trilogia, una crisi in tre parti. La prima parte di questa trilogia è stata la crisi ‘anglosassone’ del 2008-09. La seconda parte è stata la crisi del 2011-12 della ‘zona euro’. Ed ora entreremmo nella fase iniziale della terza parte della trilogia, la crisi dei “mercati emergenti” dal 2015 in poi”.
Alert a cui sono peraltro seguiti dati americani non certamente positivi quali il recente ed invariato tasso di disoccupazione. Nel mese di settembre sono infatti stati creati poco più di 140.000 posti di lavoro nonché sono stati rettificati al ribasso quelli precedentemente comunicati di agosto e luglio, evidenziando così una crescente difficoltà per le aziende USA a mantenere una crescita dei posti di lavoro mensile superiore alle 200.000 unità.
Fatto quest’ultimo che ha però mandato in euforia gli operatori finanziari ed i mercati in quanto interpretato come un ulteriore freno al rialzo dei tassi da parte delle Yellen, concetto poi ulteriormente avvalorato giovedì scorso dalla pubblicazione dei verbali dell’ultimo meeting della FED.
INSEGUIRE LE ASPETTATTIVE
In un quadro così evidentemente allarmistico però il comune risparmiatore assiste spesso impietrito a movimenti non intuitivi dei mercati e conseguentemente dei personali investimenti e preferisce accodarsi al gregge, senza considerare il concreto rischio di tosatura che può ora correre partecipando ad un mercato in cui l’unico driver rimasto sono le aspettative pro status quo o di ulteriore azzardo morale, generabile da aggiuntive manovre espansive da parte delle banche centrali. Tra gli ulteriori motivi di “euforia” non sono infatti mancate le dichiarazioni di un primario economista dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, il quale ha indicato, a margine di un loro convegno, come possibile l’ampliamento del QE della BCE a 2.400 miliardi di euro fino al 2018, dagli attuali 1.100 previsti per settembre 2016. Considerazioni prontamente cavalcate anche dal fatto che l’inflazione in Europa è tornata sotto zero, come certificato nella prima stima di Eurostat per il mese di settembre e che nel conclamare l’inefficacia di questi primi sei mesi di QE dal punto di vista sia inflattivo che di crescita finora stimate, fanno però ritenere agli operatori finanziari che sia necessario un maggior stimolo, non fosse altro per mantenere a galla i mercati finanziari.
RICORDARE I FONDAMENTALI
Nonostante l’eccitazione che tali notizie sembrano in grado di creare nel breve, unitamente a movimenti sempre più volatili dei mercati, non bisogna scordare il quadro generale, ovvero che quello dipinto dagli stessi regolatori è di un rallentamento della crescita globale. Una frenata i cui effetti non mancheranno di manifestarsi presto anche sulla locomotiva americana e ciò malgrado il sorprendente PIL USA al 3,9% nel secondo trimestre, un dato talmente sorprendente che la stessa FED non lo ha però neppure ritenuto sufficiente per ritoccare i tassi di un modesto 0,25% a settembre. Forse perché le aspettative future della banca centrale USA sono molto meno rosee di quanto sconti il mercato. Nel mese di ottobre, secondo la consueta indagine di Bloomberg, sono invece aumentati del 50% il numero di economisti propensi ad una recessione americana nei prossimi 12 mesi, rivedendo così i picchi dell’ottobre 2013. Un fatto questo che, seppur marginale rispetto al consenso generale, non deve essere sottostimato in quanto la differenza sui mercati azionari la farà sempre e solo la crescita dell’economia e con essa degli utili societari.
Osservando poi la correlazione che esiste tra gli indicatori manifatturieri americani e l’andamento annuale reale del PIL, dovrebbe quantomeno far allertare la possibilità di una futura caduta del prodotto interno lordo, a maggior ragione per gli evidenti effetti che ciò provocherebbe sulle quotazioni azionarie.
Valutazioni che devono come sempre trovare conferma e sostegno nella reale crescita societaria, la quale sembra invece sempre più “battere in testa”, come dimostrano le revisioni al ribasso degli utili societari che si susseguono in questo 2015, al fine di correggere le precedenti aspettative.
E se la storia passata insegna qualcosa, può essere conveniente per il comune risparmiatore osservare il grafico elaborato da Barclays e dal quale emerge come un sostanziale declino percentuale nei margini di profitto delle aziende incluse nello S&P500 sia stato dagli anni ’70 ad oggi (fatta eccezione per il 1985) un indicatore predittivo dell’avvio o della successiva entrata in recessione dell’economia a stelle e strisce.
CONCLUSIONE
Se dopo una fase di grande difficoltà, le borse metteranno realmente da parte la paura e riusciranno a risalire ancora, nonostante il deterioramento dei fondamentali, semmai scommettendo sulla classica stagionalità positiva del fine anno, sarà l’occasione (se non già ora) per avviare una nota strategia detta “sell the rip”, ossia vendi sui forti rimbalzi. E questo perché tutti ora aspettano i futuri rialzi per liquidare le posizioni, avendo ormai capito, dopo le forti perdite accumulate in poche settimane, quanto sia il “vuoto” creato nelle quotazioni sostenute dai solo flussi monetari e non dall’economia reale. Purtroppo solo con il senno del poi sapremo se avranno avuto ragione i “ribassisti” o i “rialzisti” ed in ciò sta il guaio ma se si sceglie la view “bearish” e si sbaglia, si perde solo una parte del potenziale rialzo, essendo quantomeno limitato dai livelli attuali mentre se si sceglie una visione “bullish” e si sbaglia, si potrebbe soffrire una vera distruzione del capitale investito.
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