L’America rischia di perdere la partita globale proprio ora che si trova al picco dell’indebitamento e senza un risparmio interno per sostenerlo, risparmio che invece hanno i cinesi, i giapponesi e gli europei.
di Maurizio Novelli
Il recupero dell’economia internazionale non è per nulla garantito, nonostante i poderosi stimoli fiscali e monetari erogati nei mesi scorsi; la sensazione è che la perdita dell’economia reale per l’effetto Covid sia al momento di circa il 30%-40% rispetto ai livelli pre crisi.
La distruzione dei dati macro è stata talmente profonda che al momento risulta difficile comprendere l’affidabilità dei recenti dati pubblicati e, sebbene sia evidente che il ciclo di contrazione si sia interrotto, non si riesce a capire la portata dell’attuale recupero in corso.
Gli economisti litigano con gli uffici di statistica dei vari governi sulla incomprensibilità dei dati e risulta abbastanza chiaro che le recenti pubblicazioni sono un po’ gonfiate e finalizzate a infondere coraggio e sostenere le aspettative.
Il caso piu’ eclatante riguarda i dati sulla disoccupazione USA che, sebbene il Labor Department del governo dichiari essere di circa 17 milioni, per le società di analisi macro indipendenti americane sarebbero 32 milioni (quasi il doppio).
La totale inaffidabilità dei dati rende alquanto difficile quantificare l’efficacia degli interventi messi in campo, anche se risulta ormai chiaro che gli Stati Uniti si apprestano a deliberare ulteriori stimoli fiscali da cira 3000 miliardi di dollari (un altro 15% di PIL), perché si rendono conto che l’economia reale (Main Street) non ha beneficiato di tali stimoli quanto Wall Street. Come al solito, la finanza ha prevalentemente assorbito l’intervento monetario e fiscale ma ora ci troviamo con i mercati finanziari totalmente disconnessi dall’economia reale e con il rischio evidente che questa situazione non possa reggere.
Le previsioni piu’ realistiche, che non sono ovviamente quelle di Wall Street, sono per una ripresa economica lenta ed esposta a continue ricadute dopo i primi tre mesi di apparente forte recupero successivi al lockdown. Continueremo ad aver bisogno del QE e degli stimoli fiscali per sostenere l’economia, esattamente come in Giappone accade da anni, e gli stimoli fiscali sono destinati a rimanere per ora l’unico driver di crescita per il prossimo futuro.
Quando si ridurranno ci sarà una ricaduta del ciclo e quando li si ripristina vi sarà una ripresa, esattamente come ormai in Giappone avviene da anni dopo l’esplosione della bolla del debito e l’avvio della cosiddetta balance sheet recession. Il QE messo in opera dalle Banche Centrali, e in particolare dalla FED, è stato finalizzato a supportare il capitale di rischio e gli asset finanziari, trasformando la politica monetaria da strumento finalizzato a stimolare il credito e la crescita, in un mero strumento di protezione del capitale e del risparmio occidentale accumulato in asset finanziari che non rispecchiano piu’ il valore reale dell’economia sottostante.
Questo è ormai lo scopo della politica monetaria, finalizzata per lo piu’ a proteggere il capitale investito nel sistema (come in Giappone), ma senza garantire che tale operazione possa produrre in futuro un effettivo ritorno sul capitale investito. Da questo punto di vista i mercati finanziari, intesi come il luogo d’incontro naturale tra domanda e offerta di strumenti finanziari per definirne un valore (un prezzo), sono finiti.
Infatti, tale valore è ormai definito da forze esterne (le Banche Centrali) semplicemente per evitare che il prezzo reale degli asset e il livello dei tassi d’interesse sia definito dal mercato, che potrebbe pero’ produrre un enorme riprezzamento del valore di asset finanziari che non sono piu’ supportati dai fondamentali. Il passo di recupero dell’economia sarà condizionato da un crescente trend di insolvenze e ristrutturazione del debito che, in considerazione del colossale livello di debito privato nel sistema, saranno decisamente superiori ai livelli del passato.
La cosiddetta repressione finanziaria continuerà a giocare un ruolo predominante sui mercati occidentali e inciderà negativamente sul ritorno del capitale investito. Ci sarà meno mercato, piu’ imposizione fiscale ovunque e costanti interventi pubblici per sostenere imprese too big to fail, avviando dunque un processo di intervento statale nell’economia mai visto dal dopoguerra.
Questo tipo di intervento affliggerà la redditività aziendale in modi diversi. Ci sarà meno concorrenza, piu’ capitale pubblico, meno dividendi e meno buyback, con evidenti implicazioni per il Roe (utile su mezzi propri) e gli utili per azione. Il QE in atto negli Stati Uniti condizionerà il mercato del credito in diversi modi: le società che rientrano nei piani di protezione federale riceveranno credito dal sistema grazie a garanzie pubbliche, ma quelle escluse saranno esposte ad un potenziale credit crunch.
Infatti le Banche e i Fondi d’investimento saranno indotti a sottoscrivere credito protetto dal governo per ridurre i rischi di portafoglio in un sistema dove i rischi di credito rimarranno generalmente molto elevati per molto tempo.
La recente contrazione imponente subita dal credito al consumo negli Stati Uniti conferma questo trend e non depone a favore di una ripresa dei consumi ai ritmi del passato. Tutte le aziende esposte al mercato e non protette da garanzie pubbliche saranno obbligate a fare deleverage (riduzione dei costi, della forza lavoro e degli investimenti), con evidenti conseguenze per l’economia reale.
Al momento ci sono, sul solo mercato USA, 6000 miliardi di dollari di obbligazioni speculative e 10.000 miliardi di credito bancario non coperto da garanzie governative. Credo che il reale impatto della crisi si farà sentire quando il mercato del credito inizierà a prezzare i tassi di default attesi su tutta una serie di asset e finanziamenti non protetti dagli interventi recentemente attuati.
Insomma, ci troviamo in una forma di stand by dovuta al fatto che da aprile è in vigore negli Stati Uniti (così come parzialmente è in Italia, ndr) una moratoria sui pagamenti di rate di mutui, carte di credito, prestiti auto, student loans, affitti eccetera. Quando questa sospensione dei pagamenti verrà meno, cadrà il velo sulla reale solvibilità del sistema. La liquidità immessa, in questo caso, non servirà ad impedire le insolvenze perché tale liquidità sarà prevalentemente alla ricerca di attività sicure, safe assets.
Nel frattempo si intensifica lo scontro geopolitico tra Cina e Stati Uniti, con ovvie implicazioni sula ripresa degli investimenti globali e con la spinta ad una revisione generale della Global Value Chain.
L’economia cinese si prepara a fronteggiare la fine della sua crescita prevalentemente basata sull’export e punta a una forte accelerazione delle riforme in campo finanziario per aprire il mercato agli investitori esteri. Si profila all’orizzonte una possibile guerra finanziaria, oltre a quella commerciale, tra Cina e Stati Uniti.
L’America ha recentemente approvato un disegno di legge che interrompe lo scambio di informazioni finanziarie con le autorità cinesi per la vigilanza sulle società cinesi quotate a Wall Street. Per gli addetti ai lavori, questo è il primo passo che prelude ad una spinta verso il delisting delle società cinesi dai mercati finanziari USA.
I cinesi stanno spingendo verso una maggiore integrazione della piazza di Hong Kong con il sistema finanziario interno e puntano ad un accordo commerciale di libero scambio con le principali economie dell’Asia. Gli Stati Uniti di Trump puntano invece ad una riduzione del deficit commerciale, ma tale deficit è sempre stato la vera arma di dominio economico, finanziario e geopolitico dell’America in Asia. Infatti le importazioni americane sono state uno dei principali fattori di dominio del dollaro in Asia come divisa di riserva. L’Asia detiene le principali riserve valutarie del mondo (ovviamente in dollari) e un’eventuale introduzione del Renmimbi come divisa di scambio nel commercio tra Cina e i paesi dell’Asia pone una seria minaccia al dollaro nella regione. La Cina pesa oggi per circa il 40% dell’interscambio commerciale con tutti i paesi asiatici. E’ tuttavia inevitabile che cio’ accada, anche se ogni azione possibile verrà intrapresa per ostacolare questo irreversibile trend.
Se l’Asia ridimensiona le sue riserve in dollari ci saranno meno flussi d’investimento verso i titoili di stato Usa (Treasuries) e la FED sarebbe costretta ad aumentare l’acquisto di titoli del tesoro, stampando ancora piu’ moneta di quanto stia facendo ora. Ovviamente tutto questo non depone a favore del dollaro, che già ora sembra avviato verso una deciso indebolimento, al momento determinato dal fatto che l’Europa ha deciso di emettere i tanto attesi eurobonds e quindi a rafforzare la tenuta dell’Eurozona.
Un altro fattore di supporto al dollaro, il rischio di rottura dell’euro, si è ora dissolto e le emissioni tripla A dell’Eurozona (circa 1700 miliardi di euro) saranno un forte competitor per i Treasury USA e per i flussi d’investimento verso l’America che, finora, sono stati un fattore fondamentale per il finanziamento del leverage degli Stati Uniti.
A questo proposito, la Fed ha in questi giorni rivisto la regolamentazione bancaria che includeva i Treasuries tra gli assets di bilancio che contribuivano al conteggio del leverage sul capitale di rischio delle banche, escludendoli da tale contabilizzazione. A questo punto per le Banche USA non ci sarebbero piu’ limiti nel detenere Titoli di Stato americani e questo evento conferma lo scenario che mi aspettavo in questa crisi: monetizzazione del debito USA, dollaro debole e forte competizione globale per cercare di attirare i capitali mondiali che finora si erano riversati in prevalenza sugli asset americani.
In un mondo dove il problema è il finanziamento del debito, tutti ora competono per attirare i capitali che servono per finanziarlo e chi non ha risparmio interno deve stampare moneta piu’ di altri (gli Stati Uniti). L’America rischia di perdere la partita di tale competizione globale proprio ora che si trova al picco dell’indebitamento e senza un risparmio interno per sostenerlo, risparmio che invece hanno i cinesi, i giapponesi e gli europei.
Gli Stati Uniti sono probabilmente giunti al punto di svolta del trend di crescita basato sulla leva finanziaria. Mi aspetto quindi il dollaro scivolare verso l’area 1,20/1.22 entro la fine di quest’anno ma, in considerazione degli eventi citati, prevedo un target di 1,45/1,50 entro i prossimi due anni. Se qualcuno è sorpreso dalla forza dell’oro in un contesto di euforia dei mercati, si faccia quindi delle domande.
Per quanto riguarda gli asset americani, ribadisco quanto ho già avuto modo di sottolineare in precedenti note: non sono particolarmente attratto da strumenti finanziari che stanno in piedi solo grazie al Quantitative Easing delle Banche Centrali. Credo che le opportunità d’investimento vere dipendano dall’economia reale, dai potenziali consumi e dalla crescita degli investimenti reali, e che tali prospettive siano oggi molto piu’ promettenti in Asia che altrove.
Mai come ora le opportunità sono state cosi’ ampie per scegliere dove allocare gli investimenti per i prossimi trend, e sebbene il consenso consideri pessimista chi non crede nei soliti indici (Nasdaq, SPX e Russell), non è detto che i migliori affari si facciano dove tutti credono di dover stare.
Se molti investitori sapessero come vengono fatti i bilanci delle società quotate americane, probabilmente fuggirebbero in massa. A tale proposito ritengo particolarmente utile leggersi l’articolo recentemente apparso sul Financial Times il 26 Luglio inititolato “We are in the golden age of fraud”.
Per risolvere il problema delll’enorme massa di debito che circola attualmente nel sistema occidentale, credo che sarà necessario un lungo processo di ristrutturazione, che inciderà sul passo di crescita dell’economia dei paesi piu’ avanzati e produrrà un contesto di crescita piu’ dipendente dalla politica fiscale (di volta in volta espansiva o restrittiva) e meno da investimenti privati e consumi finanziati dal leverage. Sarà necessario convertire parte del debito privato in equity e consolidare il debito pubblico nel bilancio delle Banche Centrali (come già accade in Giappone). Solo dopo tale processo le economie occidentali torneranno a crescere in un modo piu’ bilanciato e meno dipendente solo da un debito necessario a sostenere una domanda gonfiata. Durante questa fase di consolidamento e ristrutturazione del debito, le economie emergenti avvieranno una fase di decoupling (disaccoppiamento) dai consumi USA, eccessivamente dipendenti dal credito, e perseguiranno un modello economico piu’ centrato sulla Cina e sull’interscambio regionale.
Questo nuovo trend dell’economia globale è solo nella sua fase iniziale e trasformerà gli equilibri economici e geopolitici mondiali. Le Banche Centrali (FED, BCE e BOJ) continueranno a supportare gli asset finanziari per evitare il meltdown del risparmio e del capitale accumulato dalle economie capitalistiche occidentali, ma l’intero sistema finanziario sembra ormai orientato ad un contesto Japan style, con bassi ritorni sul capitale investito e tassi d’interesse a zero un po’ ovunque.
Da Milano finanza
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