La storia del materiale che per tre millenni è stato alla base del denaro: il più universale e efficiente sistema di fiducia reciproca mai inventato
Un marziano atterra a Lucca: o a Pistoia, Sesto San Giovanni, Utrecht, fate voi. Sono molte le cose che lo incuriosiscono, ma una su tutte. In una società complessa, persino agli occhi di un extraterrestre, milioni di persone si scambiano beni e servizi con striscette di carta colorata il cui «potere d’acquisto» appare enormemente superiore al materiale su cui sono stampate. Ciascuno li accetta in pagamento convinto che altri li prenderanno a loro volta. C’è di più. Non sempre gli umani si affrettano a sbarazzarsene in cambio di qualcosa di più concreto: frutta, verdura, un maglioncino nuovo. Ogni tanto ne fanno collezione. Convinti che il panettiere e il birraio saranno lieti di accettarle come contropartita del loro desinare non solo oggi ma persino domani.
Guardato con sospetto per buona parte della nostra storia, disprezzato, almeno a parole, dagli uomini d’arme, tenuto a distanza, almeno a parole, dagli uomini di fede, il denaro è un’invenzione straordinaria. È «il più universale e efficiente sistema di fiducia reciproca mai inventato», spiega Salvatore Rossi, citando Yuval Harari, nel suo Oro.
Come si regge questa fiducia reciproca? Il titolo dell’agile pamphlet del direttore generale della Banca d’Italia risolve l’enigma. Non c’è nessun inventore da ringraziare, solo una storia lunga e un materiale unico, l’oro per l’appunto. Il metallo giallo si è conquistato l’universale rispetto degli uomini, lasciandolo in eredità alle striscette di carta, la sua progenie.
Come ben ricorda Rossi, l’oro è «bello, lucente, caldo». È «duttile, è omogeneo», si lascia fare a fettine. « È incorruttibile, cioè non arrugginisce, non si altera col tempo». Nello stesso tempo è fungibile e camaleontico: fondendo un lingotto si possono forgiare gettoni o monili. Ed «è raro»: per estrarlo dalle viscere della terra ci vogliono lavoro e fatica.
«Per tre millenni l’oro ha incarnato il denaro», spiega Rossi. Di più: l’oro ha definito il denaro. Il fatto che fosse così apprezzato di per sé ne ha consentito l’adozione come mezzo di scambio. La relativa facilità nel frazionarlo lo ha reso unità di conto. Il suo essere assieme incorruttibile e scarso ci ha convinto ad affidargli i nostri risparmi.
Le banconote emergono, spiega Rossi, per «un cambio di paradigma tecnologico». Un biglietto è più leggero e facile da trasportare di quanto non lo sia una moneta aurea. Ma inizialmente le persone credevano che si limitassero a rappresentare una quantità di moneta (quella vera, d’oro) che il portatore avrebbe potuto farsi pagare sull’unghia. L’eventualità non è mai stata vista con grande favore dagli istituti d’emissione.
Si capisce che, in tempi più recenti, le banche centrali siano state ben liete di rinunciare alla convertibilità, alla «reliquia barbarica», come diceva Keynes, che era il misurare il valore della propria valuta in once d’oro, per sostituire al metallo giallo la loro credibilità. Le reliquie però possono avere grande potere, se la fede è forte. In un mondo in cui i sovrani apparivano effigi distanti e lo Stato un apparato rudimentale, il peso specifico del metallo giallo, quanto a fiducia, era enormemente superiore.
Basti pensare che il più grande degli economisti italiani, Francesco Ferrara, ancora a fine XIX secolo ipotizzava che sarebbe stato impossibile ai legislatori «scapricciarsi imponendo una moneta di ferro, tanto per renderci più spartani che non siamo», e riuscire a convincere la gente a usarla come valuta legale.
Oggi i biglietti si scambiano e si accumulano non grazie alla fiducia che irradia l’oro, ma sulla credibilità del banchiere centrale. Che talora brilla più intensamente, talora meno, ed è sempre più duttile dei vecchi metalli preziosi. Sarà per questo che, come racconta Rossi in pagine che hanno il passo del romanzo, la reliquia è ancora al suo posto, nella cripta della Banca d’Italia. Raramente toccata, come quando parte ne fu data in pegno alla Bundesbank quale garanzia per un prestito di valuta nel 1974. Dichiaratamente inutile, giacché nulla tranne la fiducia che irradiano le istituzioni pubbliche regge la nostra «fiat money»: ma sempre lì, che non si sa mai.
Da questo punto di vista, è curioso guardare all’ultimo cambio del paradigma tecnologico: quello che stanno generando le «criptovalute». Che cos’è Bitcoin se non un tentativo di digitalizzare l’oro? La cartamoneta brilla della luce riflessa della potenza statale. Privo di questo atout, l’inventore di Bitcoin, Satoshi Nakamoto, ha costruito qualcosa che è assieme «digitale» e «scarso». Non viene estratto dalle viscere della terra ma da «miniere» virtuali in cui i computer debbono risolvere problemi sempre più complessi: e più difficile è il problema, più lenta l’emissione.
Esiliato dal sistema finanziario internazionale da Nixon nel 1971, l’oro resta lo «standard» su cui modelliamo la nostra idea di denaro, più o meno consapevolmente. L’imitazione è il complimento più grande.
Da: La Stampa
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