Parlare di mutui significa parlare di un prodotto bancario “povero” e dire che l’85% degli Italiani sono proprietari di casa contro il 45% dei tedeschi.
Per capire come mai siamo giunti a questo punto, bisogna fare un passo indietro.
Alla fine degli anni ‘90 i mutui in Italia venivano concessi per scadenze brevi, 10 e 15 anni al massimo, perché era un prodotto che marginava poco e di uso limitato.
Furono due banche inglesi, l‘Abbey National Bank (rilevata nel 2004 da Unicredit) e la Woolwich (poi incorporata nella Barklays) che portarono in Italia le durate lunghe fino ad arrivare ai 40 anni di mutuo. Le banche locali le seguirono.
Più le durate dei finanziamenti si alzavano, più la rata si abbassava e maggiori fasce sociali si avvicinavano all’acquisto della casa. Il fenomeno immobiliare decollò grazie ai bassi tassi del 2003 che durarono fino al 2006.
Altra spinta venne dalle stesse banche, che arrivarono a vendere mutui con spread allo 0,6% anche per le durate maggiori. Ma l’impulso spettacolare arrivò con le cartolarizzazioni; i mutui diventarono prodotti finanziari da “impacchettare” e collocare ai risparmiatori; la liquidà che arrivò fu illimitata.
Per quanto riguarda il mercato interno, la domanda fu fortissima perché colmava una forte esigenza sociale. Gli extracomunitari, come i comunitari che erano venuti a lavorare in Italia, avevano l’esigenza di comperare casa per fare il ricongiungimento familiare, quindi l’italiano poteva acquistarsi la casa nuova o più grande, riuscendo a vendere la vecchia abitazione ai nuovi italiani. Le stesse banche arrivarono a forme di finanziamento anche superiori al 100% dell’acquisto dell’immobile, permettendo la compravendita a chiunque.
Così, come nel 2001 eravamo tutti esperti di azioni ed al bar si parlava di calcio come di azioni Eni o di Fiat, nel 2006 tutti sapevamo tutto sullo spread, sulle durate e sul mercato immobiliare. Se ne vedevano di tutti i colori; dagli agenti immobiliari che diventavano grossisti di mutui, ai cinesi che si comperavano la casa con laboratorio annesso. C’era anche chi riusciva a spuntare la chiusura dei finanziamenti in corso o chi si faceva dare pure i soldi per fare le vacanze. Insomma, più il mercato cresceva più si alzavano le stime degli immobili, più arrivavano soldi.
Una bolla enorme.
In America crearono i mutui subprime; letteralmente mutuo dopo il primo. Una seconda occasione insomma; dovete sapere che negli stati Uniti oltre al fallimento delle società esiste pure il fallimento della persona fisica. Se un cittadino Usa non riesce a pagare il mutuo, il prestito e la carta di credito, dichiara fallimento e lo stato lo aiuta. Però, se successivamente volesse accedere al credito, dovrà passare per le finanziarie che gli applicheranno tassi maggiorati, visti i precedenti. Tanto poi si cartolarizzava, e perché poi negare un mutuetto al messicano appena arrivato a San Diego?
Poi arrivò la Lehman Brothers, e la crisi della finanza.
I più sobri sono stati i Tedeschi. In Germania, differentemente da noi, sono i comuni che regolano i piani abitatitivi e fanno solamente costruire alle ditte edili, e quando le incaricano di vendere, gli fanno pure il prezzo finale. Non si è creato, da loro, quel mercato affaristico legato alle scelte soggettive di urbanizzazione del terreno agricolo in industriale, che è stato alla base del consenso locale dei partiti politici, almeno fino ad oggi.
In Francia, dove la proprietà immobiliare costituisce il 65% delle ricchezze delle famiglie, si teme un crollo del 40% del valore delle case.
Della Spagna abbiamo già scritto; di nuovo c’è che hanno appena nazionalizzato Bankia, a causa delle sofferenze immobiliari.
Tornando al Bel Paese, si calcola che se le banche italiane fossero costrette ad aggiornare al costo reale gli immobili in loro possesso, dovrebbero contabilizzare rettifiche per 65 miliardi di euro. Pare che i crediti di difficile recupero degli istituti di credito siano al 10%, un vero disastro.
E il cambiamento arriva in un momento delicato, in cui le banche stanno limitando il credito per soddisfare i requisiti stringenti di capitalizzazione voluti da Basilea 3. Se aggiungiamo il credit crunch, la riforma del catasto, l’Imu, e i dati sulla disoccupazione giovanile oramai diventata cronica, il futuro del settore immobiliare si prospetta molto difficile.
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