La versione di Azimut

azimut_logo_new11 Gli ultimi dati di marzo disegnano un quadro macro in leggero miglioramento che in parte contrasta con le proiezioni al ribasso della Fed.

In Cina, i dati PMI manifatturieri sono tornati in territorio di espansione per la prima volta negli ultimi otto mesi. Anche negli Stati Uniti, dove l’indice ISM manifatturiero è tornato nel mese di marzo sopra la soglia di espansione (50) per la prima volta da agosto scorso passando da 49,5 a 51,8. In miglioramento le condizioni del mercato del lavoro, con un Employment Report che registra +215.000 nuovi occupati nel mese di marzo, un aumento dei salari (+2,3%/anno) ed un aumento del tasso di partecipazione a scapito di un

aumento di 0,1% del tasso di disoccupazione (da 4,9% a 5%). La Yellen ha usato però toni molto «prudenti». Questa apparente «contraddizione» è stata spiegata inizialmente con il tentativo delle Banche Centrali di coordinare le politiche monetarie in modo da non scatenare una guerra valutaria e stabilizzare il dollaro. Anche la BCE ha espressamente dichiarato infatti che il suo obiettivo non è di indebolire l’Euro. Come abbiamo avuto modo di dire, Draghi ha posto sicuramente un sostegno importante al mondo dei corporate bond e ha fatto capire che i tassi resteranno bassi fino al 2020. Di fatto ha però nuovamente guadagnato tempo e ha passato la «palla» ai politici. Purtroppo però, in Eurozona le vicende politiche non giocano a favore: Spagna, Portogallo e Irlanda hanno governi di minoranza o sono privi di governo, mentre la Grecia è di nuovo al centro dei riflettori. In Europa l’altro punto da chiarire in maniera più decisa riguarda il settore bancario che soffre il contesto di tassi a zero non certo favorevole a contrastare la zavorra dei NPL in bilancio. Sono queste ancora le incognite da chiarire per riportare il sereno sui mercati.

La Brexit e l’accordo EU-Turchia sembrano vicende di minore importanza nel breve termine: probabilmente non conviene a nessuno l’uscita dell’Inghilterradalla UE e la questione rifugiati/terrorismo, che rimane un problema socioeconomico serio, riguarda di più il «lungo periodo», ma per battere i mercati occorre agire «subito» perché «perder tempo a chi più sa, più spiace (Dante)».

 

Il primo trimestre appena concluso è stato tra i più volatili della storia recente. Le ultime settimane hanno registrato un rally nelle varie asset class rischiose anche se da inizio anno gran parte degli indici resta in territorio negativo: l’EuroStoxx50 ha chiuso il trimestre a -8%, il FTSEMIB e lo Shanghai composite a -15% mentre l’indice S&P500 ha chiuso il trimestre marginalmente positivo, a +0,8%, ma se consideriamo il movimento negativo del dollaro anche i principali indici azionari statunitensi sono in negativo per gli investitori europei. Nelle prossime settimane tornerà ad essere importante seguire il prezzo del petrolio e l’andamento delle trimestrali. Il prossimo 19 aprile si dovrebbe tenere a Doha un summit di 12 Paesi produttori di petrolio: è interessante notare che l’Arabia Saudita ha per la prima volta riconosciuto il diritto dell’Iran a veder crescere la produzione. Il prezzo del petrolio è oggi vicino ai livelli dello scorso dicembre. Una stabilizzazione del greggio potrebbe ridurre la volatilità anche dei mercati azionari e potrebbe arrivare per più motivi; prima di tutto come abbiamo visto non è interesse di nessuno far rafforzare ulteriormente il dollaro.

 

Inoltre, la produzione di petrolio sta finalmente mostrando segnali di rallentamento anche in USA; la riunione del 19 aprile non può che migliorare questo punto. In secondo luogo, la domanda globale resta in buona forma. Sugli utili trimestrali di prossima pubblicazione sarà interessante vedere l’effetto «dollaro» che ai livelli attuali risulta circa 5% più alto rispetto al primo trimestre dello scorso anno ma niente in confronto agli apprezzamenti a doppia cifra registrati nel corso del 2015, addirittura del 15% in Q3. Stesso discorso per il petrolio che non scende più come nei trimestri precedenti e che potrebbe dar fiato al settore energia e, di conseguenza, ai finanziari maggiormente esposti. Infine, come abbiamo ricordato altre volte, una stabilizzazione del prezzo del greggio sugli attuali livelli e/o una sua lenta ripresa innescherebbe un processo di fiducia sulla ripresa dell’inflazione che, se graduale, potrebbe far bene a tutti gli asset «reali» come le azioni. Questo ragionamento vale a «bocce ferme» perché nel frattempo dovranno verificarsi altre condizioni importanti per la sostenibilità degli utili aziendali, non ultimo politiche fiscali maggiormente espansive in grado di stimolare i consumi delle famiglie e gli investimenti delle aziende. Finora invece le politiche monetarie stanno ampiamente, e forse eccessivamente, stimolando il debito (pubblico e privato) creando una vera e propria bolla, come dimostra l’irrazionalità di rendimenti negativi e/o sempre più vicini allo zero. E’ pur vero che della bolla sull’obbligazionario si è avvantaggiata anche l’asset class azionaria con i buy back finanziati dal debito che hanno permesso di distribuire gli utili decrescenti su un numero di azioni inferiore con il «magico» risultato di avere «utili per azione» in crescita. In breve ci sembra che le notizie positive che potranno cambiare in maniera sostenibile il sentiment di mercato riguardano l’economia reale e, in particolare, interventi della politica per espandere la spesa pubblica e rendere «reali» i benefici «finanziari» dei tanti interventi di espansione monetaria

 

Cina, rischi geopolitici e Brexit sono forse le variabili che potranno fare la differenza nel sentiment dei mercati nelle prossime settimane. Tra i beneficiari di un dollaro meno forte la Cina è al primo posto grazie all’ allentamento delle tensioni sullo yuan che può permettere ai policy maker cinesi di essere più liberi nella difficile transizione verso i consumi interni. Probabilmente sono diminuite le probabilità di un «hard landing» cinese con tutte le conseguenze indirette sugli asset rischiosi, come la possibile ripresa delle materie prime e del settore energia, con conseguenze sia sull’azionario che sull’obbligazionario high yield, e l’impatto sui finanziari esposti ai settori suddetti. Gli Emergenti hanno sovraperformato i mercati Sviluppati nel mese di marzo recuperando parte (circa 5 punti percentuali) del terreno perso negli ultimi 5 anni, anche se il divario rimane ancora elevato (circa un 45 per cento). E’ stato stimato che gli effetti diretti ed indiretti di un rallentamento della crescita cinese sul Pil americano e su quello europeo potrebbe essere dell’ordine di un -0,30% e di un -0,40% rispettivamente (solo ipotizzando un rallentamento delle esportazioni cinesi del 10%). I rischi geopolitici derivanti dal terrorismo forse «pesano» di più nel medio termine. Infatti, anche se è triste a dirsi, sono i fatti che ci dicono che la fiducia dei consumatori e le quotazioni dei mercati azionari recuperano in fretta lo shock iniziale di un attacco terroristico non protratto nel tempo. Più importanti sono invece le ripercussioni finanziarie di lungo periodo come le spese per la difesa e la creazione di agenzie di investigazione che in Usa hanno entrambe un peso economico non irrilevante; la spesa americana per la difesa, per esempio, è nettamente superiore alla media della maggior parte dei paesi. Infine, i sondaggi sulla Brexit danno a pari merito i sostenitori della “uscita” contro coloro che vogliono restare nell’UE: l’incertezza è ancora elevata e l’azionario europeo potrebbe andare incontro a momenti di volatilità in maniera analoga al periodo di paura della Grexit dell’anno scorso (che ricordiamo è stata però passeggera).

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