La reazione dell’eurozona ai risultati del voto italiano, è una matrioska: all’interno preoccupazione, nascosta dalla prudenza, avvolta nell’attesa.
L’attesa era quella di sapere se lo stallo evolveva verso un governo con un orizzonte breve, che facesse alcune riforme necessarie, tra cui una nuova legge elettorale e il taglio dei costi della politica, per portare il paese al voto in condizioni più serene.
La prudenza è dettata appunto, vista l’incertezza, dal desiderio di non alimentare tensioni, né politiche, né finanziarie, in un momento delicato per tutta l’eurozona.
Infatti la ripresa economica tarda ad arrivare ed i paesi “periferici”, con l’eccezione dell’Irlanda, non mostrano alcun segnale positivo, mentre la disoccupazione cresce ed aumentano le tensioni sociali e i sentimenti anti-euro.
Anche la crisi finanziaria è tutt’altro che risolta, infatti a quella delle banche iberiche, greche, cipriote e slovene, si aggiunge il fragile equilibrio di quelle inglesi, irlandesi e belghe, già oggetto di salvataggi, mentre quelle tedesche e francesi hanno seri problemi sui derivati e le italiane sulle sofferenze.
E’ evidente a tutti che l’Italia è l’ultimo argine alla distruzione dell’eurozona, si tratta di uno dei Paesi fondatori, di uno dei maggiori finanziatori del fondo salva stati e della terza economia.
Già queste ragioni bastano per comprendere la sua importanza, se poi aggiungiamo il fatto che ha il terzo debito del mondo, si comprende come la preoccupazione sia molto vicina alla paura, anticamera del panico, evento che un continente che cammina sul cornicione, non si può permettere. Del resto che l’Europa cammini sul cornicione lo si può desumere dal fatto che nell’area euro sono rimasti solo quattro i paesi che hanno conservato la tripla A: Germania, Olanda, Austria e Finlandia, mentre fuori, dopo gli Usa, anche l’Inghilterra è stata degradata. Bene ha fatto Napolitano a difendere la dignità italiana, ma il leader socialdemocratico tedesco non è l’unico a pensare che in Italia abbiano vinto due comici, non è vero, però non si può negare che più della metà del Paese abbia votato per partiti che non solo rifiutano la politica del rigore, ma rifiutano l’idea dell’Europa attuale e in fondo anche quella dell’euro. Stremati da sacrifici, di cui non si intravede la fine, in molti stanno cercando la scorciatoia dei movimenti populisti.
Il problema non è tanto modificare e allentare le politiche di rigore, ma quello che nel 2020, cioè domani, i paesi cosiddetti emergenti raddoppieranno la loro ricchezza, a danno nostro. Si tratta quindi di proseguire nell’integrazione, tornare indietro significherebbe perdere almeno il 50% del potere di acquisto, senza che vi sia un rilancio delle imprese, perché il nostro apparato produttivo può sopravvivere solo se si adatta alla globalizzazione, la battaglia del prezzo non può più essere vinta. Questo percorso non può prescindere dall’Italia, che deve ridisegnare la sua politica economica, sviluppando sì la green economy e l’internet economy, ma senza rinunciare ai settori tradizionali, anzi rilanciandoli, come accaduto in Germania.
Per fare questo occorre ridisegnare non solo l’architettura statale e istituzionale, ma anche il welfare. La sfida è complessa e la nostra classe dirigente nel suo complesso è profondamente in crisi ed è questo che spaventa l’Europa e non solo, nessuno si può permettere una Grecia delle dimensioni italiane, anche perché l’effetto contagio non sarebbe solo economico-finanziario, ma anche sociale. Per questo l’Italia è oggi l’ultima frontiera.