- Di Andrea Copernico
Il passo del gambero di Jean Pierre Mustier ha fatto innescare la retromarcia anche al titolo di Unicredit travolto dalle vendite in Borsa dopo la presentazione della semestrale. Conti deludenti, sotto le attese del cosiddetto consensus degli analisti. E accompagnati da un preoccupante taglio delle previsioni per i ricavi dell’intero 2019.
PIANO INDUSTRIALE DA PRESENTARE A DICEMBRE
Al netto dei numeri (e delle voci su una nuova raffica di esuberi), quello che il mercato non comprende è la rotta di Unicredit. Non la capisce perché Mustier non la comunica, rimandando quasi ossessivamente a quel piano industriale da presentare il 3 dicembre 2019 a Londra, Brexit permettendo.
QUELLE (INSPIEGABILI) SCELTE DI VENDERE
Prima l’inspiegabile – secondo molti addetti ai lavori – scelta di vendere Fineco con una riduzione di competenze nel fintech, vista la leadership della società guidata da Alessandro Foti in questo ambito. E nonostante fosse una controllata redditizia in termini di dividendi, visto che nel 2018 sono stati distribuiti 30,3 centesimi per azione grazie a un utile di 244 milioni. Peraltro si tratta solo dell’ultima di una serie di dismissioni che stanno restringendo progressivamente il perimetro del gruppo: prima la polacca Pekao, poi Pioneer, la banca ucraina Ukrsotsban, gli immobili, l’impianto eolico di Ocean Breeze in Germania. In attesa di conoscere il destino della partecipazione in Mediobanca.
MUSTIER NON RIESCE A RASSICURARE LA BORSA
Ora la revisione delle stime sui ricavi zavorrati dai tassi bassi. E i profitti deludenti a causa delle maggiori rettifiche sui crediti e di altri oneri a cominciare dal costo del funding. «Vogliamo essere certi di avere per la banca una struttura solida, in grado di resistere a qualsiasi choc economico», ha detto Mustier agli analisti. Senza però riuscire a rassicurare la Borsa,
VERSO UNA FUSIONE MAGARI IN SALSA TEDESCA?
Quella del banchiere francese è solo prudenza o pessimismo? E se la cura dimagrante imposta alla banca fosse il prodromo a una fusione paneuropea (magari in salsa tedesca) dove però l’istituto di piazza Gae Aulenti farebbe la fine della preda più facile così da digerire? Nelle sale operative queste domande circolano da mesi, e anche tra i soci.
FIDUCIA DEL CDA. COME CON GHIZZONI…
Un attestato di fiducia che a qualcuno, però, ha ricordato cosa capitò al predecessore di Mustier, Federico Ghizzoni. Il 9 febbraio 2016 Ghizzoni incassò «la piena fiducia» e, per di più «all’unanimità», da parte del cda. Con un endorsement arrivato dopo diversi rumors che indicavano malessere tra gli azionisti. Il clima “sereno” venne ribadito dallo stesso Ghizzoni il 14 maggio di quell’anno davanti ai soci in assemblea. Poi il 24 maggio fu riunito un cda straordinario e Ghizzoni, caduto sulle spalle di Atlante e della Popolare di Vicenza, fu costretto a fare un passo indietro. Con le dimissioni a turbo-orologeria saltò come un tappo di champagne.
Federico Ghizzoni.
LE FONDAZIONI BANCARIE CACCIARONO PROFUMO
Nel 2010 furono le fondazioni bancarie ad accompagnare alla porta Alessandro Profumo. La rapida ascesa dei soci libici venne usata come pretesto dall’allora presidente, il tedesco Dieter Rampl, per sollevare un caso di violazione della governance e portare alla rottura del rapporto fiduciario con l’ad. Mentre nel caso di Ghizzoni fu decisiva la spinta dei soci esteri diventati assai più “pesanti” degli enti bancari nel salotto della banca.
IL VECCHIO PROBLEMA DELLA REDDITIVITÀ
Il 25 maggio del 2016 Il Sole 24 Ore dedicò al caso Unicredit un titolo di taglio (“Unicredit, Ghizzoni lascia”) e un’analisi di Alessandro Graziani: «La svolta al vertice di Unicredit richiede una soluzione in tempi rapidi. Due le priorità strategiche: fare chiarezza definitiva sull’aumento di capitale e ridefinire la presenza paneuropea del gruppo senza pregiudicarne la redditività». Tradotto: se vendi i pezzi del tuo sistema che guadagnano soldi, alla fine resti a secco e muori di sete.
Da Lettera 43