L’ANALISI: Dopo la fase “risk off” ante 2012 e poi “risk on” post discorso Draghi, è ormai solo “RORO”
Operatori finanziari sempre più focalizzati sulla gestione degli eventi estremi
E’ proseguito, seppur con minor intensità, il rimbalzo dei mercati finanziari. Un rimbalzo che ha visto finora partecipare coralmente quasi tutte le asset class d’investimento, essendo i rialzi spaziati dal mercato azionario USA fino al bene rifugio per eccellenza come l’oro. La reazione fin qui mostrata dopo il “Black Monday” del 24 agosto evidenzia la decisa contrapposizione tra rialzisti e ribassisti, non fosse altro perché dal lato “bullish” è letto come una conferma di forza di un mercato confidente nelle politiche monetarie delle banche centrali mentre dal lato “bearish” è visto come la prova di un primo deterioramento della fiducia riposta nei banchieri centrali a seguito del reale peggioramento del quadro macro economico.
LE OPPOSTE IDEE
Il braccio di ferro è dunque ormai avviato e tra gli addetti ai lavori si sprecano i commenti operativi, seppur sia possibili ricondurli sempre al seguente ed accademico grafico prezzo/tempo delle quotazioni azionarie, ovvero all’evoluzione del mercato nei cicli di “bull market” e di “bear market” e dunque di strategie operative quali “buy the deep” (acquista sempre sui forti ribassi) o quella di “sell the rip” (vendi sempre sui forti rimbalzi).
La prima metodologia è stata premiante dall’estate 2012 fino ai recenti mesi estivi, ovvero da quel “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi ed in grado di spronare tutti gli operatori finanziari, dagli istituzionali fino ai piccoli risparmiatori, ad investire e correre sempre maggiori rischi, basandosi sull’assunto che i banchieri centrali avrebbero fatto qualunque cosa. E dunque ogni ribasso è stato interpretato come un’occasione d’acquisto a basso rischio, quasi un “free lunch” ovvero un pasto gratis, offerto da FED, BOJ e BCE. I recenti e forti scivoloni, seguenti al rallentamento dell’economia globale, hanno però iniziato a mostrare quale sia la concreta distanza creata tra le quotazioni raggiunte grazie ai flussi monetari degli ultimi anni e la realtà economica e ciò ha fatto uscire dal lungo letargo i “ribassisti” e con essi l’idea di una strategia potenzialmente vincente in uno scenario di “mercato orso”.
IL QUADRO D’AZIONE
Prima però di propendere verso l’una o l’altra idea è bene ricordare in quale contesto siamo (almeno fino ad ora), a maggior ragione essendo avvenuto dal 2012 un vero e proprio cambio d’impostazione nelle strategie delle banche centrali. Da allora si è passati da una gestione basata sul concetto classico di “central bank put”, ovvero di un intervento monetario che si verifica dopo l’insorgere di uno stress finanziario e conseguente declino economico (esempio post Lehman Brothers), ad un approccio di attacco preventivo contro il rischio, ovvero di azione ai primi segnali di turbolenze sui mercati e prima che ciò crei un impatto esplosivo sul mercato e sull’economia. Un “game change” ben osservabile dal grafico allegato e sviluppato da Artemis Capital, in cui appare eloquentemente la relazione tra l’indice della volatilità VIX e CFSI (Finacial Stress Index elaborato dalla FED di Cleaveland) rispetto alle azioni intraprese dai banchieri.
Da quell’estate ogni periodo di crescente tensione finanziaria ha provocato infatti l’azione monetaria diretta di una grande banca centrale o un accomodante commento da un funzionario chiave ed il risultato conseguito è stato uno tra i migliori trienni di premio di rendimento per il rischio della storia della borsa americana, in oltre 200 anni.
Tutto ciò ha però portato gli operatori finanziari ad incorporare la reazione dei banchieri nei premi di rischio, ovvero ad inglobare nei prezzi (come nella recente reazione) il fatto che ci sarà un’azione di sostegno da parte delle banche centrali, scollegando così sempre più l’intervento degli stessi banchieri dai fondamentali. Si è perciò creato tra mercati e banche centrali il più classico dilemma del prigioniero. Un problema che nell’ultimo anno viene evidenziato dai banchieri con dichiarazioni del tipo “la politica monetaria non può tutto”. Limiti e timori che sono emersi anche nel recente meeting di Lima del Group of 30, ovvero dell’élite bancaria mondiale. Dall’incontro sono emersi più interrogativi che soluzioni su come uscire davvero da quel patto faustiano che ha finora previsto una falsa ed odierna stabilità (garantita dalla stampa monetaria) in cambio di un maggior rischio economico e finanziario futuro.
E’ FASE “RORO”
La conseguenza attuale di un così protratto alleggerimento monetario, associato ad una uscita da tale dilemma, ha portato gli investitori a modificare l’atteggiamento operativo, ovvero si è passato da una fase prevalentemente di “risk off” ante 2012 ad una maggiormente “risk on” nei tre anni successivi, fino all’attuale ed estremo approccio contestuale di “risk off / risk on” (RORO). Metaforicamente si è prima proceduto con la cautela e la paura che derivava dal brancolare in una stanza buia alla ricerca della porta d’uscita (RISK OFF, post Lehman), per poi passare all’euforia di aver trovato ed acceso un interruttore della luce che ha permesso di eliminare l’atavica fobia delle tenebre (RISK ON, QE planetari), ad una fase in cui c’è il forte rischio che la luce si accenda e si spenga sempre più frequentemente in attesa di trovare l’agognata via d’uscita dalla stanza o peggio di soccombere per l’eccessivo stress e paura (RORO, in base all’exit strategy). Un approccio che, come riportato nel paper conclusivo del meeting dei G-30 dal titolo “Lesson from the Crisis”, fa riflettere molto gli stessi banchieri. E’ di fatto considerato uno dei tre indesiderabili effetti delle loro politiche. Dopo il timore per il livello di inflazione e l’eccessivo aumento del debito rispetto al PIL, c’è la questione della sempre meno funzionante ed efficiente allocazione delle risorse finanziarie e questo perché ormai si tenderebbe a gestire le cosiddette “fat tail” o “code grasse” con un approccio RORO focalizzato sugli eventi estremi.
CONCLUSIONE
In un tale contesto può tornare utile ricordare l’ipotesi di Minsky, ossia che gli agenti economici (fino ai piccoli risparmiatori), osservando un basso rischio finanziario, sono indotti ad aumentare l’assunzione di rischi, cosa che a sua volta può portare a una crisi. Questo è il fondamento della famosa affermazione “la stabilità è destabilizzante”, concetto peraltro espresso dalla stessa Yellen nel giugno del 2014 quando affermò “la volatilità dei mercati è a livelli bassi, sia effettivi che attesi … nella misura in cui possono indurre comportamenti azzardati, questa è una preoccupazione per me e per il Comitato”. Un timore che i banchieri sentono prossimo essendo la volatilità rimasta finora inaspettatamente bassa per un lungo periodo e come evidenziato dal recente studio pubblicato su Voxeu dal titolo “Volatility, financial crises and Minsky’s hypothesis”, ciò aumenta le probabilità di una crisi nel settore bancario e nel mercato azionario, a maggior ragione se durasse per un lustro o più. Ecco dunque che per i banchieri è prossima la scelta di una exit strategy basata o sull’ulteriore rinvio o sull’uscita da tali manovre per mezzo di una discesa possibilmente controllata, in quanto e sempre per dirla con le parole di Ludwig Von Mises “non c’è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un’espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell’abbandono volontario di un’ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto”. Due scenari che potrebbero finanziariamente adattarsi a quanto ipotizzato recentemente dal noto e non certo ottimista gestore Marc Faber, ossia la possibilità di dover affrontare un mercato non attrattivo sulla falsariga del collasso del 1987 o una discesa “scorrevole” e basata sulla speranza, come nel 1973.
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