In questo paradigma sempre più dominato dalle Banche Centrali, che nelle ultime settimane ha visto crescere significativamente le aspettative sulla BCE, il meeting della Bce può costituire uno snodo
importante per l’andamento di breve termine dei mercati. In realtà le aspettative sono di gran lunga posizionate per una “no action” sul fronte della politica monetaria, anche perché al momento non sembrano esserci le condizioni per l’implementazione di nuove misure:
– all’interno del Consiglio manca ancora un consensus sufficientemente diffuso per varare con determinazione un QE in stile FED
– i recenti dati macro non hanno evidenziato sorprese negative tali da imporre una accelerazione su questo fronte;
– Draghi ha sempre precisato di voler verificare i risultati delle misure già implementate prima procedere con altre iniziative e, al momento, è troppo presto per avere dei concreti riscontri.
Per l’evoluzione di breve dei mercati sarà determinante quanto Draghi saprà mantenere viva negli operatori la convinzione che la Banca Centrale, con un elevato consenso interno al Consiglio, è pronta ad intervenire nel nuovo anno, probabilmente già a partire dalla riunione del 22 gennaio. Considerato il buon recupero registrato dalle Borse europee sulle aspettative di politica monetaria, non è quindi da escludere che la settimana in corso possa sperimentare un incremento della volatilità.
D’altra parte, anche Wall Street, pur non fornendo alcun segnale negativo, sembra evidenziare un po’ di “stanchezza”: se è vero che solo la settimana scorsa l’S&P500 ha fatto segnare il massimo storico, è altrettanto vero che nell’ultimo mese non ha quasi mai fatto registrare variazioni superiori al mezzo punto percentuale e per più della metà delle sedute ha evidenziato una performance inferiore al +/-0.2%.
Questa sensazione di “stanchezza” è d’altronde coerente con la situazione che abbiamo più volte descritto: economia in progressivo miglioramento, ma fase di transizione delle politica monetaria, seppure con tassi di interesse che resteranno bassi a lungo, e valutazioni decisamente piene sui fondamentali. Alla maggiore volatilità potrebbe anche fornire un contributo il crollo che ha interessato le quotazioni del petrolio, con l’accelerazione impressa dalla decisione dell’Opec di mantenere la produzione invariata a 30 mln di barili.
Pur dando per scontato che lo sbilancio che sta interessando il mercato del petrolio è conseguenza soprattutto della crescita dell’offerta piuttosto che di aspettative particolarmente fosche sul fronte dell’economia globale, resta il fatto che il forte ribasso del prezzo del greggio si presta a molteplici letture:
– da un lato ha un significativo impatto positivo sulla propensione di spesa dei consumatori, oltre che sui margini di profitto di alcune industrie;
– dall’altro ha un deciso effetto deprimente sugli utili del comparto energy, che ha un peso non secondario su molte Borse, genera pericolosi squilibri sullo stato delle finanze di alcuni paesi (tra i paesi produttori soltanto il Qatar raggiunge il breakeven di bilancio agli attuali prezzi), rischia di mettere in crisi i produttori di shale oil negli Stati Uniti (anche se secondo recenti studi soltanto il 4% della produzione di shale oil necessita di un prezzo superiore a 80 $ e dal 2015 l’80% dei nuovi campi di produzione saranno profittevoli ad un prezzo compreso tra 50-69 $). Il problema ècomplicato anche dal lato delle Banche Centrali: se il crollo del prezzo del petrolio ha un chiaro effetto espansivo che potrebbe in parte sostituirsi alla politica monetaria, al tempo stesso rischia di alimentare ulteriormente le spinte deflazioniste o meglio disinflazionistiche.
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