Il punto sui mercati

 Le tensioni commerciali non mostrano segnali di attenuazione ed anzi le ultime dichiarazioni del Presidente Trump puntano al rischio che la “guerra commerciale” evolva in “guerra valutaria”. Ciononostante, i mercati finanziari sono rimasti relativamente tranquilli nell’ultima settimana, soprattutto quelli rischiosi, verosimilmente supportati dalla buona stagione degli utili trimestrali in USA ed Europa, dal flusso favorevole di dati macroeconomici USA e dall’incapacità di stabilire se gli ultimi sviluppi sul fronte del protezionismo americano rappresentano una vera minaccia o rientrano nella strategia negoziale della Casa Bianca (per quanto oggettivamente più aggressiva di quanto si pensasse all’inizio dell’anno). Gli asset rischiosi dei Paesi Sviluppati hanno complessivamente continuato a sovraperformare quelli dei Paesi Emergenti, con l’S&P 500 che ha tenuto la soglia di 2800, mentre la debolezza è stata concentrata sugli asset più esposti al rischio di guerra commerciale tra USA e Cina, in particolare nei mercati valutario e delle materie prime. Più sorprendentemente, i rendimenti obbligazionari USA sono scattati al rialzo, dopo la lenta discesa del decennale verso area 2,80% del mese di giugno e gran parte di luglio, probabilmente in risposta agli ultimi commenti di Trump sulla politica monetaria ed al sentiment positivo sugli asset rischiosi, ed all’inizio della settimana corrente il movimento sembra essersi trasmesso anche ai JGB giapponesi ed al Bund tedesco. Come conseguenza, l’appiattimento della curva dei rendimenti USA ha subito una battuta di arresto, accolta con una solida sovraperformance del settore finanziario sui mercati azionari.

Una certa rotazione nelle performance relative sembra emergere dalla dinamica di mercato dell’ultima settimana, sull’aspettativa che il differenziale di crescita possa diventare più favorevole al resto del mondo rispetto agli USA nei prossimi mesi, che la tensione politica domestica americana in vista delle elezioni di novembre possa intensificarsi e che il rischio di uno shock al commercio internazionale sia almeno in parte prezzato su alcuni asset rischiosi. In particolare, la sovraperformance degli asset USA (in particolare equity e credito corporate high yield) sembra perdere vigore, soprattutto rispetto alle controparti europee, e, tra le materie prime, il petrolio ha iniziato a sottoperformare metalli e commodities agricole.

La stagione degli utili trimestrali nei Paesi Sviluppati è appena iniziata ma si prospetta solida, fornendo un significativo supporto ai mercati azionari, in particolare quelli USA che presentano le valutazioni più elevate ma hanno anche il potenziale maggiore di crescita degli utili. Soltanto il 10% delle società dell’S&P 500 aveva riportato i bilanci trimestrali alla fine della scorsa settimana, ma il 94% delle società ha battuto le attese, con un crescita degli utili per azione del 21% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Anche la crescita del fatturato è robusta, all’8% annuo, con il 72% delle società che ha battuto le aspettative. Ancora più importante, le guidance aziendali per il resto dell’anno non sembrano risentire particolarmente delle tensioni commerciali. In Europa, il 51% del 15% delle società dello Stoxx 600 che hanno riportato i dati trimestrali ha battuto le attese, con una crescita annua dell’utile per azione del 10% (il consenso era dell’8,5%).

Gli sviluppi sul fronte macroeconomico nell’ultima settimana sono stati relativamente modesti, in attesa del periodo più intenso del mese per la pubblicazione dei dati macro che è iniziato oggi con PMI preliminari di luglio per Giappone, Eurozona e USA. Il mix di dati di attività reale (vendite al dettaglio, produzione industriale, nuove richieste di sussidi di disoccupazione) e di sentiment (Empire, Philadelphia tra gli altri) è coerente con un tasso di crescita del PIL negli USA per il secondo trimestre (che sarà pubblicato venerdì) di almeno il 4% su base trimestrale annualizzato, che è agevolmente il più elevato tra i Paesi Sviluppati e che conferma come negli ultimi mesi l’economia globale sia stata guidata dagli Stati Uniti. Il flusso di dati nell’Eurozona finora segnala soltanto che l’attività economica si dovrebbe essere stabilizzata nel secondo trimestre a livelli poco superiori a quelli deboli del primo trimestre; con gli effetti negativi dell’apprezzamento dell’Euro che dovrebbero essersi ormai sfogati, l’economia dovrebbe mostrare segnali di miglioramento nel corso del terzo trimestre. Nel frattempo, l’outlook di politica monetaria è relativamente stabile. Il Governatore della Fed Powell, nel corso delle audizioni alle commissioni del Congresso, ha sostanzialmente confermato il percorso di rialzo dei tassi, subordinatamente alla tenuta della crescita economica, mentre dal meeting della BCE di giovedì non dovrebbero arrivare novità significative. In Cina, infine, le autorità rimangono focalizzate sul contenimento dei rischi per la crescita delle tensioni commerciali e dalla riduzione della leva finanziaria, ed il mix di politica economica continua a diventare più espansivo, anche sul fronte fiscale.

Il fronte geopolitico è invece rimasto in piena attività, dominato dalla politica commerciale USA. Il Presidente Trump ha portato al centro dell’attenzione i mercati finanziari, prima dichiarando di non condividere la politica di rialzo dei tassi della Federal Reserve, poi, soprattutto, sostenendo che la forza del US$ pone gli Stati Uniti in condizioni di svantaggio rispetto ai Paesi che manipolano le loro valute, come Cina e Unione Europea. Mentre l’intervento sulla politica monetaria difficilmente avrà conseguenze tangibili, quello sulla politica valutaria è potenzialmente più rilevante, perché può influenzare le trattative in corso con la Cina e l’Unione Europea che potrebbero portare ad una nuova ondata di misure restrittive del commercio internazionale (in particolare i dazi all’importazione negli USA di altri 200 miliardi US$ di beni cinesi e delle auto). Nel mirino c’è quasi sicuramente la debolezza dello yuan, che, per quanto motivata dall’ampia divergenza di politica monetaria (espansiva in Cina, restrittiva negli USA), può essere facilmente interpretata come una forma di ritorsione all’imposizione dei dazi.

 

 

 

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