Il punto sui mercati

 Le persistenti tensioni commerciali tra Stati Uniti e resto del mondo hanno mantenuto elevata l’avversione al rischio anche nell’ultima settimana, in attesa degli importanti appuntamenti macroeconomici e politici. L’S&P 500 ha chiuso la settimana in ribasso di oltre un punto percentuale, analogamente allo Stoxx 600 europeo, mentre l’azionario dei Paesi Emergenti ha continuato a sottoperformare i Paesi Sviluppati. Ciononostante, l’S&P 500 è l’unico dei principali indici mondiale a registrare una performance positiva nel primo semestre dell’anno (+2,6%), supportato dal settore tecnologico e dai segmenti del mercato più esposti all’andamento dell’economia domestica (come small-cap e consumi discrezionali), che sono più sensibili agli effetti positivi del massiccio stimolo fiscale dall’amministrazione Trump ma meno vulnerabili all’andamento del commercio internazionale. Nel frattempo i flussi d’investimento alla ricerca di beni rifugio mantengono il rendimento del Treasury decennale ben lontano dal 3%, nonostante la parte breve della curva non stia riprezzando in senso espansivo le aspettative sulla politica monetaria della Fed. Il conseguente appiattimento della curva dei rendimenti americana rimane pertanto uno dei temi ricorrenti di discussione sui mercati, dal momento che l’inclinazione negativa è considerata uno dei segnali più affidabili di recessione, anche se il tema riguarda più probabilmente il 2019 o il 2020 (il differenziale tra i tassi a 10 e 2 anni è ai minimi da agosto 2007 ma è ancora positivo per 32 punti base).

L’indiscrezione (poi smentita) che gli USA potessero ritirarsi dall’Organizzazione Mondiale del Commercio è stata sufficiente ad annullare un rimbalzo significativo dell’S&P 500 nella seduta di venerdì, confermando che il tema del protezionismo sia probabilmente al primo posto tra le preoccupazioni dei mercati. Il 1 luglio sono entrati in vigore i dazi canadesi di ritorsione su 13 miliardi di US$ di importazioni dagli USA, mentre il 6 luglio sarà la volta dei dazi americani sull’importazione di 34 miliardi US$ di beni dalla Cina, la prima parte sui 50 miliardi US$ già annunciati. L’amministrazione Trump inoltre aveva lasciato intendere che avrebbero potuti essere sottoposti a restrizioni tutti gli investimenti negli Stati Uniti in tecnologie strategiche da parte di società controllate da entità cinesi per almeno un quarto del capitale (in questo caso le posizioni si sono poi ammorbidite). Anche se il flusso di notizie su questo fronte è destinato a rimanere convulso, alcuni aspetti meritano una maggiore attenzione a causa delle potenziali conseguenze negative su larga scala:

 

  • Gli Stati Uniti stanno valutando l’imposizione di dazi al 20% all’importazione di auto nuove, come risposta alle barriere commerciali già esistenti ed al dazio europeo del 10% sulle auto americane. Poiché gli USA hanno importato auto per circa 190 miliardi US$ nel 2017, dei quali oltre la metà dai Paesi non NAFTA (in particolare Giappone, Corea del Sud e Germania), questa iniziativa avrebbe effetti diffusi su scala globale ed un effetto moltiplicatore negativo elevato, considerando la rilevanza economica del settore automobilistico e la complessità della sua catena produttiva.

 

  • Il Canada starebbe valutando la possibilità di imporre dazi alle importazioni di acciaio dal resto del mondo per evitare che le forniture precedentemente dirette verso gli USA (già colpite da dazi) possanoessere “dirottate” sul suo mercato. Questo creerebbe un precedente molto negativo per lo scenario macroeconomico mondiale, poiché segnalerebbe che le restrizioni al commercio internazionale imposte dagli USA avrebbero “contagiato” anche le relazioni commerciali tra gli altri Paesi.

     

    • La relazione commerciale tra USA e Cina rimane tesa: con la minaccia che fino a 450 miliardi US$ di importazioni di beni cinesi negli USA possano essere colpite da dazi americani, a cui la Cina non potrebbe rispondere (il volume delle importazioni di beni USA in Cina è molto inferiore), non sorprende che le autorità cinesi stiano cercando alternative per sostenere la loro posizione negoziale. Mentre la possibilità di boicottaggi di prodotti americani è certamente presente, gli eventi della scorsa settimana sembrano indicare che la politica valutaria possa essere presa in considerazione.

     

    • Le ripercussioni delle tensioni commerciali sugli indicatori macroeconomici: la batteria di indici PMI Manifatturieri per il mese di agosto uscita all’inizio della settimana corrente conferma complessivamente lo scenario di crescita mondiale stabile a livelli relativamente elevati (con una marcata ed inaspettata accelerazione dell’ISM Manifatturiero USA), compatibile con un ritmo di crescita annuo della produzione industriale globale stabile intorno al 4%. I dettagli degli indici ed i commenti di alcuni esponenti delle Banche Centrali (soprattutto della Fed), tuttavia, segnalano che le preoccupazioni che le restrizioni al commercio internazionale possano danneggiare le catene produttive industriali o aumentare i prezzi dei prodotti finiti cominciano a filtrare tra gli operatori economici.

     

    Anche se da diversi mesi il mix di politica economica in Cina stava diventando più espansivo (favorendo la sovraperformance dell’economia almeno fino ad aprile), la decisione della Banca Centrale di ridurre il coefficiente di riserva obbligatoria in aperta ed inconsueta opposizione all’accelerazione del ritmo di rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve sta venendo interpretato come il via libera alla svalutazione competitiva dello yuan. Il deprezzamento della divisa cinese contro US$ nelle ultime due settimane è arrivato a superare il 3% (prima di interventi verbali della Banca Centrale per contenerlo) è analogo a quello dell’agosto 2015 che fu altamente destabilizzante per i mercati finanziari. Anche se le condizioni attuali sono molto diverse da quelle di allora, le conseguenze negative in termini di restrizione delle condizioni finanziarie (tramite apprezzamento del US$) e deflussi di capitale dai Paesi Emergenti rimangono ben presenti e potrebbero pesare sullo scenario macroeconomico.

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