Il punto sui mercati

 I mercati finanziari sono rimasti relativamente calmi in una settimana particolarmente intensa sul fronte geopolitico e della politica monetaria: mentre alcuni asset hanno effettivamente registrato marcate oscillazioni direttamente riconducibili agli eventi di policy (come EUR/US$, oro, asset dei Paesi Emergenti), in generale sono continuati i trend delle ultime settimane: sovraperformance dei mercati azionari dei Paesi Sviluppati rispetto a quelli Emergenti, degli USA rispetto all’Europa sia nell’equity che nel credito corporate high yield e, nell’ambito del mercato azionario americano, dei comparti tecnologico e delle small cap. Un certo grado di prudenza è tuttavia rimasto di sottofondo, riflettendo le situazione geopolitica internazionale tesa, e l’inizio della settimana sembra essere improntato più decisamente all’avversione al rischio, in risposta agli ultimi sviluppi sulle relazioni commerciali tra USA e Cina.

Gran parte dell’attenzione della scorsa settimana è stata focalizzata sulla politica monetaria, con i vertici della Fed, della BCE e della Bank of Japan in rapida successione. La Fed si conferma come l’unica Banca Centrale dei Paesi Sviluppati in un ciclo monetario chiaramente restrittivo e gli investitori sono stati sorpresi dalla retorica più “hawkish” del previsto. Mentre un rialzo dei tassi di 25 bp era ampiamente atteso e già preannunciato, l’outlook macroeconomico è stato rafforzato, riconoscendo il raggiungimento dei target non soltanto sul tasso di disoccupazione (che è ben al di sotto delle stime di equilibrio di lungo periodo) ma anche dell’inflazione (in maggio anche la misura “core” ha raggiunto il 2%). Come conseguenza, il percorso futuro di rialzo dei tassi è stato accelerato, da 3 a 4 rialzi di 25 bp per il 2018: anche se in realtà il punto terminale del ciclo di rialzi rimane invariato (i rialzi previsti per il 2020 passano da 2 a 1 mentre quelli per il 2019 rimangono 3), i mercati finanziari scontavano questa probabilità solo al 50%.

Al contrario la BCE ha sorpreso i mercati in senso “dovish”, anche se la recente retorica di esponenti del Board lasciava intendere che nel meeting di giovedì potessero essere annunciate variazioni di policy. In particolare il programma di acquisto di titoli del “quantitative easing” è stato esteso a tutto il quarto trimestre dell’anno, seppur ad un ritmo ridotto di 15 miliardi di Euro di acquisti netti al mese. Mentre questa decisione non è giunta totalmente inaspettata, anche alla luce della recente debolezza dell’economia e della tensione sull’Italia, l’orientamento di politica monetaria dopo il “quantitative easing” è stato modificando, inserendo un’indicazione temporale per il primo rialzo dei tassi, dopo l’estate 2019. Questo implica di fatto che il primo rialzo dei tassi della BCE non avverrà prima del terzo trimestre del 2019, rispetto alla metà del prossimo anno come prezzato dai mercati prima del meeting, e l’utilizzo di una guidance temporale esplicita (inusuale per la BCE) rende difficile per la stessa Banca Centrale deviare in futuro da questo percorso.

La retorica delle Banche Centrali sulle due sponde dell’Atlantico è peraltro coerente con il flusso di dati macroeconomici, che anche questa settimana ha confermato una decisa sovraperformance dell’economia USA. A parte la sorpresa negativa sulla produzione industriale di maggio, legata all’incendio di una fabbrica di componenti per auto che si è riverberato negativamente su  tutta la produzione automobilistica, i dati sull’attività economica sono coerenti con un ritmo di crescita annualizzato dell’economia americana intorno al 4% nel secondo trimestre, il più elevato dal 2014. Nel frattempo, la contrazione della produzione industriale in aprile nell’Eurozona sembra confermare che il ritmo di crescita del PIL sarà intorno al 2% nello stesso trimestre, senza chiari segnali di recupero dopo la debolezza del primo trimestre. Per questo motivo, i PMI preliminari per giugno che saranno pubblicati venerdì saranno guardati con particolare attenzione. Dopo aver sovraperformato nel primo trimestre, anche la crescita economica in Cina sembra aver subito una frenata, sulla base della batteria dei dati per il mese di maggio; un rallentamento dell’attività economica cinese crea rischi al ribasso per l’intera area dei Paesi Emergenti, dove già alcuni Paesi chiave come Turchia, Brasile e Argentina sono sottoposti ad un intenso stress finanziario.

 

L’attivismo geopolitico della Presidenza Trump continua ad essere un chiaro rischio per i mercati. Mentre l’esito del meeting tra il Presidente USA ed il Leader della Corea del Nord si può considerare un successo (nonostante la vaghezza degli impegni), il G7 è stato un fallimento totale, con un chiaro isolamento degli Stati Uniti, anche in risposta alle ultime iniziative di politica commerciale a danno di alleati storici come Canada ed Unione Europea. Soprattutto, però, i mercati finanziari stanno reagendo molto negativamente all’intensificazione della guerra commerciale tra USA e Cina. Nel weekend gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di dazi all’importazione su beni cinesi per 50 miliardi US$, cui la Cina ha prontamente risposto con dazi su un pari importo di importazioni di beni USA. Questa prima ondata di dazi dovrebbe avere un impatto molto limitato dal punto di vista macroeconomico, essendo indirizzata con estrema precisione a prodotti non particolarmente strategici da parte americana (soprattutto prodotti industriali) o con un chiaro target politico da parte cinese (soprattutto commodities agricole coltivate in Stati USA che hanno votato a maggioranza per Trump alle ultime elezioni). Più preoccupante è il potenziale di escalation del conflitto su cui sembra orientarsi la Casa Bianca, che colpendo prodotti molto più diffusi (come elettronica o abbigliamento) avrebbe conseguenze decisamente più negative sia per i lavoratori cinesi che per i consumatori americani. Mentre c’è la possibilità che si tratti comunque di una strategia negoziale USA, è evidente che l’ascesa dei “falchi” nell’Amministrazione USA nei mesi precedenti ha prodotto un inasprimento della retorica americana sul fronte commerciale, con crescenti rischi di ritorsioni da parte dei partner esteri e rischi al ribasso per la crescita mondiale dalla frenata del commercio internazionale.

 

 

 

 

 

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