L’avversione al rischio ha dominato i mercati finanziari nell’ultima settimana, riflettendo le vicende della crisi politica italiana e l’erraticità della politica estera USA sia per quanto riguarda le relazioni commerciali con la Cina che l’imminente meeting di Singapore con la Corea del Nord. Le vendite hanno colpito principalmente gli asset che avevano sovraperformato di recente, come l’equity europeo ed il petrolio, ma in generale il sentiment negativo dei mercati non è stato particolarmente diffuso: l’S&P 500 ha chiuso solo in modesto ribasso a livello settimanale, mentre la stabilizzazione degli asset dei Paesi Emergenti è continuata.
Gran parte dei movimenti di mercato è stato dettato dal flusso di notizie sul fronte geopolitico. L’attenzione dei mercati è rapidamente passata dai rapporti commerciali tra USA e Cina, sui quali sembrava essersi aperta una schiarita all’inizio della scorsa settimana, ai rapporti tra USA e Corea del Nord, ma in questo caso la posizione americana è sufficientemente nebulosa da avere poche ripercussioni sui mercati finanziari: inizialmente gli USA sembravano essersi ritirati dall’incontro di Singapore del 12 giugno con i nordcoreani, salvo poi procedere con uno scambio reciproco di delegazioni e confermare l’apertura alla partecipazione del summit. Molto più importante per i mercati finanziari è stato il flusso di notizie dall’Eurozona, tornato ad essere il principale punto di tensione: la prospettiva di un Governo populista e anti-europeista in Italia e di una crisi di Governo in Spagna ha generato una risposta simile a quella della crisi dei debiti sovrani del 2012, con impennata degli spread di rendimento dei titoli di Stato dei Paesi periferici rispetto a quelli tedeschi, vendite sull’equity e sul credito corporate europeo, specialmente quelli dei Paesi periferici, e generale indebolimento dell’Euro contro le altre valute, a partire da US$ e CHF.
La situazione, tuttavia, si sta evolvendo rapidamente. In Spagna il Governo di Rajoy andrà in contro al voto di fiducia questo venerdì, ma la minaccia per l’intera Eurozona sembra modesta poiché il Governo di minoranza spagnolo è sempre stato fragile fin dalla sua nascita e, soprattutto, dopo la sconfitta di Podemos alle elezioni, i partiti anti-sistema in Spagna non hanno grande presa: il principale beneficiario della caduta di Rajoy sarebbe il partito pro-Europa e liberale Ciudadanos, già suo alleato nella coalizione di Governo. In Italia invece la situazione è quanto mai intricata. La prospettiva di un Governo di coalizione tra Lega e Movimento 5 Stelle è svanita nel weekend per il veto del Presidente della Repubblica al candidato al Ministero dell’Economia, considerato non “market-friendly” per le posizioni critiche all’Unione Europea ed all’Unione Monetaria. Come conseguenza, il Presidente della Repubblica ha affidato l’incarico di formare il nuovo Governo a Carlo Cottarelli, ex capo della divisione affari fiscali del Fondo Monetario Internazionale e responsabile della spending-review per il Governo Letta, nel tentativo di almeno superare le scadenze fiscali dell’autunno, in particolare la legge di bilancio. La reazione dei mercati è tuttavia confusa, perché, anche nella possibilità sempre più remota che il nuovo Governo si insedi, l’esito finale della crisi sarà nuove elezioni, con un certo margine di incertezza solo sulla tempistica (settembre o inizio 2019) ed importanti rischi al ribasso dalla retorica di Lega e M5S in campagna elettorale, che si preannuncia infuocata in risposta al Presidente del Consiglio, e dalle future coalizioni (Lega e M5S raggiungerebbero almeno il 60% insieme secondo i sondaggi). Anche se lo scenario di base rimane che la crisi politica italiana non si trasformi in una minaccia sistemica per l’Eurozona, i segnali di contagio ci sono (come nella debolezza dell’Euro) e la volatilità è destinata a rimanere elevata a lungo sugli asset europei e periferici in particolare. L’unico aspetto positivo è che la compiacenza degli investitori sul rischio politico italiano è stata spazzata via e che il premio per il rischio è stato ripristinato, con l’indice FTSEMIB che ha azzerato la sovraperformance (e la performance positiva) da inizio anno e lo spread BTP-Bund ben oltre 250 bp su tutta la curva.
Un altro punto di pressione per i mercati è stato il prezzo del petrolio. Dopo aver testato livelli importanti come 80 US$/barile per il Brent, il greggio è stato colpito da pesanti prese di profitto: ora che i catalizzatori positivi si sono realizzati (uscita degli USA dall’accordo sul nucleare con l’Iran, nuove sanzioni al Venezuela), sono emersi nuovi catalizzatori negativi, sotto forma di una disponibilità di Arabia Saudita e Russia a discutere il “tapering” (riduzione) dei tagli alla produzione nel prossimo vertice OPEC/non OPEC di giugno.
Sul fronte macroeconomico, in attesa dei dati più “pesanti” di questa settimana (batteria dei PMI Manifatturieri globali e report sul mercato del lavoro USA), il flusso degli indicatori rimane sostanzialmente coerente con un ritmo di crescita del PIL mondiale relativamente elevato nel secondo trimestre, intorno al 3%, ma una differenza sostanziale rispetto al trend prevalente fino alla fine del 2017 è che la sincronizzazione della crescita sta venendo meno. Il flusso di dati negli USA continua infatti a sorprendere positivamente ed è coerente con un rimbalzo della crescita oltre il 3% nel secondo trimestre. Per contro le sorprese nell’Eurozona rimangono negative, alimentando la possibilità che la debolezza del primo trimestre non sia solo temporanea ma che rifletta effetti negativi più persistenti del previsto, per esempio dai passati apprezzamento dell’Euro e rialzo del prezzo del petrolio, con rischi ulteriori al ribasso in caso di stress finanziario che inizi a pesare sui Paesi periferici. Anche nei Paesi Emergenti le prospettive di crescita stanno diventando più differenziate, con la generale positività sulla Cina compensata dall’aspettativa di rallentamento nei Paesi più colpiti dalla recente tensione finanziaria, come Turchia, Argentina e, per contagio dal suo vicino, Brasile.
Il messaggio delle minute dell’ultimo meeting della Fed è stato interpretato come moderatamente “dovish”: benché la Fed abbia di fatto preannunciato il rialzo di 25 bp per giugno, non sembra esserci particolare urgenza ad accelerare il ritmo dei rialzi oltre i 3 per l’intero 2018. Unitamente all’avversione generale al rischio, le minute sembrano aver fermato il repricing in senso restrittivo delle aspettative degli investitori sulla politica monetaria USA, spingendo il rendimento del Treasury decennale nuovamente sotto il 3%. Questa dinamica è risultata positiva per gli asset Emergenti, che hanno continuato il processo di stabilizzazione, soprattutto dopo che misure incrementali sono state adottate dalla Turchia per cercare di impedire che il sell-off degli asset locali degenerasse in crisi finanziaria.