In una settimana con poche notizie sul fronte macroeconomico ma molto intensa su quello geopolitico, la maggior parte degli asset rischiosi si è mossa al rialzo, con una dinamica simile alla reflazione come non si vedeva da prima della correzione dei mercati di febbraio. Dopo essere rimasto relativamente poco sensibile ai buoni dati trimestrali aziendali nelle ultime settimane, l’S&P 500 ha accelerato al rialzo, rompendo la resistenza rappresentata dalla media mobile a 100 giorni a quota 2707 ed il tono positivo è ancora più evidente in altri segmenti del mercato USA, con l’indice delle small cap Russell 2000 ai massimi di gennaio, il Nasdaq 100 a meno del 3% dai massimi di marzo ed una blue chip particolarmente pesante come Apple che ha registrato nuovi massimi storici. A livello settoriale, il rally sembra essere guidato dai comparti ciclici (come tecnologici, industriali e finanziari), nonostante non vi siano evidenti segnali di accelerazione ciclica dell’economia (del resto la settimana dopo il report sul mercato del lavoro è la più povera del mese di dati macroeconomici negli USA), mentre la sovraperformance del settore petrolifero riflette il rialzo del prezzo del petrolio. Oltre all’andamento positivo dell’equity e del credito corporate, ancora più rilevante è probabilmente quello della volatilità, con l’indice VIX della volatilità implicita dell’S&P 500 sceso sotto 13, non lontano dai livelli di gennaio, in apparente contrasto con il flusso di notizie geopolitiche decisamente turbolento. Tale dinamica sembra essere una ripercussione degli eventi sul mercato obbligazionario, dove il rendimento dei Treasuries decennali fatica a superare con decisione la soglia psicologica del 3%, mentre l’apprezzamento del US$ sembra aver registrato una pausa. L’andamento della divisa USA, inoltre, guida la performance relativa a livello geografico, con una battuta d’arresto della sovraperformance dell’equity europeo rispetto a quello USA. Gli asset dei Paesi Emergenti sono invece rimasti isolati dall’andamento di quelli dei Paesi Sviluppati, riflettendo fattori idiosincratici e risentendo della pressione esercitata da US$ e tassi USA.
Il flusso di dati macroeconomici non ha fornito grandi indicazioni sull’andamento dell’attività economica mondiale, se non confermare la percezione che la crescita economica mondiale ha smesso di accelerare e si starebbe stabilizzando ad un ritmo annuo tra +3% e +3,5%, così come la produzione industriale. Sul fronte dell’andamento dei prezzi, invece, 4 sorprese negative consecutive negli USA (salario medio orario, inflazione al consumo “core”, prezzi alla produzione e prezzi all’importazione) sembrano essere state alla base del rally degli asset rischiosi nei Paesi Sviluppati della settimana scorsa, confermando che l’inflazione, per quanto ormai al target del 2% negli USA, non sta aumentando fuori controllo e che un’accelerazione del percorso di rialzo dei tassi della Fed non sembra pertanto appropriata. Fuori dagli Stati Uniti le Banche Centrali rimangono ancora più caute, come confermato dai meeting della Bank of England e della Banca Centrale della Nuova Zelanda.
Le prese di profitto sugli asset Emergenti si sono ulteriormente intensificate, spazzando via la performance positiva da inizio anno del debito in valuta locale (che aveva sovraperformato gli altri asset rischiosi a partire dalla correzione di febbraio) ma colpendo duramente anche il debito in valuta forte, dove l’allargamento degli spread sembrava in uno stadio molto più avanzato. L’andamento del US$ sembra aver fatto da catalizzatore, ma i rischi idiosincratici sono chiaramente in evidenza, con Turchia e Argentina nell’occhio del ciclone: mentre la debolezza degli asset turchi non è sorprendente, quella degli asset argentini è più inaspettata e certamente accentuata dal posizionamento sovraffollato degli investitori internazionali (era un sovrappeso di consenso). Elevato deficit delle partite correnti, elevata inflazione e perdita di credibilità delle Banche Centrali per accomodare le esigenze del Governo hanno accomunato i due Paesi, ma la reazione delle autorità è molto diversa: in Argentina la risposta di policy è stata molto ortodossa, con un aggressivo rialzo dei tassi, nuova austerità fiscale e richiesta di supporto al Fondo Monetario Internazionale; in Turchia invece non vi sono ancora segnali di svolta dal recente mix di policy eterodosso, ed il Governo ha anzi varato un nuovo piano di stimolo fiscale pre-elettorale. Mentre le iniziative dell’Argentina con ogni probabilità calmeranno la tensione sugli asset di quel Paese, la tensione in Turchia e soprattutto l’attenzione degli investitori alla vulnerabilità dei Paesi Emergenti all’apprezzamento del US$ ed al rialzo dei tassi USA (che era stata ignorata nei primi 3 mesi dell’anno) dovrebbe prevenire un rapido recupero degli asset Emergenti, a meno di interventi drastici di policy o di un’evidente accelerazione dell’attività economica.
I Paesi Emergenti non sono l’unico punto di tensione; il flusso di eventi geopolitici è stato altamente turbolento su diversi fronti. Come lasciato intendere dalla recente retorica, il Presidente Trump ha ritirato gli USA dagli accordi sul nucleare con l’Iran, reintroducendo le pesanti sanzioni (anche se nell’arco di 90/180 giorni) che erano in vigore fino al 2015, ed in netto contrasto con la posizione europea in materia. Anche se è possibile che Trump tenti di riaprire la via negoziale, come accaduto con la Corea del Nord, la situazione è particolarmente delicata poiché interventi dirompenti in Medio Oriente rischiano più facilmente di sfociare in operazioni militari, dalle quali è più complicato tornare indietro. L’effetto immediato è di consolidare il petrolio ai massimi dal 2014, sula prospettiva che almeno mezzo milione di barili al giorno di produzione iraniana possa uscire dal mercato.
L’attenzione si è nuovamente ridestata anche sull’Italia. Dopo due mesi di infruttuose consultazioni tra i partiti per la formazione del nuovo Governo, promosse dal Presidente della Repubblica, sembrava che lo scenario di elezioni anticipate (addirittura in estate) fosse diventato quello più probabile, fino a quando le trattative tra Lega e M5S non hanno ripreso nuovamente vigore ed ora un Governo tra i due partiti anti-sistema sembra in dirittura d’arrivo. Nonostante questo risultato fosse considerato quello meno probabile e meno “market-friendly” prima delle elezioni, la risposta dei mercati rimane composta: il nuovo Governo Lega-M5S sarà quasi sicuramente in rotta di collisione con le autorità europee sulla politica fiscale, ma sarà fin dall’inizio sottoposto ad una stretta supervisione del Presidente della Repubblica, che probabilmente per ora è sufficiente a rassicurare gli investitori.