I mercati finanziari continuano ad essere dominati dall’avversione al rischio, anche se vi sono segnali di stabilizzazione, come il recupero del cambio USD/JPY (il principale beneficiario di flussi alla ricerca di beni rifugio negli ultimi 2 mesi) e la fine della discesa dei rendimenti dei Governativi USA e tedeschi. Questo vale anche per il mercato azionario USA, dove l’S&P 500 sembra consolidare a ridosso della media mobile a 200 sedute, posta a 2595, con alcuni indicatori tecnici compatibili con una situazione di ipervenduto. L’equity USA rimane comunque l’epicentro della tensione, come confermano il ritorno dell’indice VIX della volatilità implicita delle opzioni sull’S&P 500 sopra quota 20 e la sovraperformance dell’equity dell’Eurozona. La difficoltà del US$ di beneficiare dei flussi di “flight-to-quality”, che a sua volta sostiene gli asset dei Paesi Emergenti che teoricamente dovrebbero essere molto più deboli in un contesto di mercato come quello odierno, è un altro riflesso di quello che molto probabilmente è un premio per il rischio politico USA sugli asset americani, legato alla rinnovata aggressività della Casa Bianca in politica estera e commerciale.
La compiacenza degli investitori sul rischio geopolitico internazionale è chiaramente svanita ed il flusso di notizie è stato dominato nell’ultima settimana dalla politica commerciale americana nei confronti della Cina, con quattro importanti annunci sul tema dei dazi alle importazioni in quattro giorni consecutivi, che hanno provocato ampie oscillazioni sui mercati, con gli investitori a domandarsi quale sarebbe l’esito finale della serie di mosse e contromosse tra i due attori. Lunedì scorso la Cina ha annunciato dazi sulle importazioni USA per 3 miliardi US$ in risposta ai dazi USA sull’importazione di acciaio e alluminio; martedì gli Stati Uniti hanno annunciato dazi su 50 miliardi US$ di importazioni cinesi come esito dell’indagine sulle pratiche in materia di proprietà intellettuale, cui la Cina ha risposto il giorno dopo con nuovi dazi di ritorsione su 50 miliardi US$ di importazioni USA. Giovedì il Presidente Trump ha istruito il suo rappresentante al commercio Lightizer di individuare altri 100 miliardi US$ di importazioni cinesi da assoggettare a dazi, cui la Cina ha risposto che avrebbe ribattuto colpo su colpo alle iniziative americane.
L’interpretazione generale è che per il momento si tratti principalmente di posizionamento in vista di più estese trattative che evitino lo scontro frontale, seguendo la strategia negoziale americana già adottata per il NAFTA (annunci dirompenti seguiti da toni più concilianti). In primo luogo, l’entità delle importazioni reciproche colpite da dazi ha comunque un impatto molto limitato sulle economie di entrambi i Paesi ed i dazi sono imposti chirurgicamente per limitare l’impatto macroeconomico: quelli USA colpiscono beni cinesi per i quali sono agevolmente disponibili sostituti da altri Paesi e non riguardano beni di largo consumo, quelli cinesi colpiscono prodotti chiave in aree geografiche americane dove il supporto politico per Trump è elevato (come la soia per gli agricoltori del Midwest). In secondo luogo, le misure annunciate non saranno operative prima di almeno 2 mesi, quindi vi è ampio margine per negoziare. Resta il fatto che la retorica tra le due superpotenze è indubbiamente su un percorso molto pericoloso e, come confermano anche le sanzioni alla Russia appena annunciate che per la prima volta colpiscono direttamente aziende considerate “campioni nazionali” dal Cremlino, è in linea con un taglio decisamente più aggressivo della linea politica della Casa Bianca. Anche se sul fronte del NAFTA sembra che ci sia stata un’apertura che può potenzialmente portare ad un accordo di massima a breve, la possibilità che gli USA rinneghino l’accordo sul nucleare con l’Iran alla prossima revisione di maggio è un altro imminente punto di probabile tensione per i mercati.
Il flusso di dati macroeconomici, per quanto di alto livello, è passato in secondo piano rispetto ai rischi di guerra commerciale e complessivamente supporta il messaggio precedente di fine dell’accelerazione della crescita mondiale e stallo a livelli relativamente elevati (oltre il 3% annuo) probabilmente per tutto il primo semestre. Mentre l’economia cinese dovrebbe essere cresciuta più del previsto, la crescita in Europa dovrebbe essersi drasticamente ridimensionata nel primo trimestre, in linea con il marcato ripiegamento degli indici PMI e con la debolezza dei dati di economia reale come la produzione industriale e le vendite al dettaglio. Anche se fattori temporanei sono probabilmente all’opera (come le condizioni climatiche più avverse della media), questa dinamica dell’economia europea è sorprendente principalmente per il timing, dal momento che un impatto negativo dall’apprezzamento dell’Euro e dal rialzo del petrolio era verosimile. La revisione al rialzo della crescita del PIL USA nel quarto trimestre a +2,9% annualizzato si accompagna ad una revisione al ribasso delle stime per il primo trimestre, ad un ritmo annuo intorno al 2%, anche in questo caso per effetto di fattori temporanei e per una più genuina debolezza della spesa per consumi. Negli Stati Uniti in ogni caso il flusso di dati rimane migliore di quello europeo ed i rischi per la crescita sono al rialzo, con gli effetti positivi della riforma fiscale e dell’aumento della spesa pubblica che devono ancora manifestarsi chiaramente. Gli elementi da monitorare maggiormente sono la restrizione delle condizioni finanziarie dovuta all’andamento recente dei mercati, che però è verosimilmente compensata da una retorica meno aggressiva della Fed, e l’effetto sugli indicatori di fiducia degli agenti economici della tensione sul commercio internazionale, che finora non è distinguibile.
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