Il punto sui mercati

 Nell’ultima settimana il  flusso di notizie generalmente negativo (soprattutto dalla politica USA) ha fatto passare in secondo piano l’attesa riunione della Fed, che è stata peraltro interpretata come più accomodante del previsto. La reazione è stata una chiara dinamica di avversione al rischio, con i mercati degli asset rischiosi generalmente deboli a fronte di acquisti su titoli di Stato e altri beni rifugio come yen e oro, ma, a differenza della correzione di febbraio, non vi sono significative deviazioni dalle correlazioni storiche (in particolare quella negativa tra equity e bond), in linea con il posizionamento molto più leggero degli investitori quantitativi. L’equity USA è stato colpito duramente, sottoperformando gli altri mercati azionari mondiali, con l’S&P

500 che è tornato a testare i minimi della correzione di febbraio. Dal canto loro, i rendimenti obbligazionari hanno ripiegato al ribasso, con quello del decennale USA ai minimi del recente canale in area 2,80% e quello del Bund tedesco tornato ai livelli di inizio gennaio. La volatilità (misurata tramite l’indice VIX per il mercato azionario) è tornata rapidamente sopra quota 20, mantenendo elevate le variazioni giornaliere ed intra-giornaliere degli indici. Parte dei movimenti della scorsa settimana sono stati corretti nella seduta di lunedì, grazie ad un miglioramento del flusso di notizie sulla politica commerciale USA nel corso del weekend, ma alcuni asset sembrano ormai incorporare un premio per il rischio politico decisamente più elevato del passato (come petrolio, oro e US$). Nel complesso, la dinamica di mercato rimane molto simile all’ultima correzione di agosto 2015 e coerente con le fasi finali del ciclo, che non richiede una significativa riduzione dell’esposizione sull’equity e sugli altri asset rischiosi, anche se una serie di riposizionamenti in termini meno ciclici e di protezione dai rischi politici appaiono appropriati.

  • Gran parte della debolezza e della sottoperformance dell’equity USA arriva dal settore tecnologico, a seguito delle notizie circa le violazioni della privacy dei suoi utenti permesse (con o senza complicità) dal colosso dei social network Facebook, che questa volta potrebbe faticare non poco  a  scrollarsi  di  dosso  l’attenzione del  grande  pubblico,  dei politici e del sistema giudiziario. Il settore tecnologico aveva sovraperformato il mercato azionario USA per anni e dopo la correzione di febbraio il Nasdaq era rapidamente tornato ai massimi storici, ma ora, complice anche la stabilizzazione della crescita mondiale e l’attenzione indesiderata della politica americana ed europea, gli investitori saranno probabilmente più cauti e selettivi nell’approcciarlo.
  • Sul fronte  macroeconomico,  il  flusso  di  dati  è  complessivamente coerente con la perdita di momentum della crescita mondiale e co n la sua stabilizzazione intorno ad un ritmo annuo del 3,5%, non lontano dai massimi degli ultimi 6 anni raggiunti alla fine del 2017. In particolare gli indici PMI preliminari di marzo stanno continuando il ripiegamento dai massimi di dicembre, in particolare nell’Eurozona, nella quale, tuttavia, la discesa avviene da livelli di fine anno oltre 60 che erano storicamente compatibili con un surriscaldamento dell’attività economica. Negli USA il flusso di dati sembra più coerente con un ritmo annuo di crescita per il primo trimestre intorno al 2%, riflettendo anche la stagionalità negativa di questo periodo dell’anno. Il trend di fondo continua però ad essere positivo ed i rischi per la crescita per il 2018 rimangono al rialzo grazie anche al maxi stimolo fiscale.
  • Con le notizie dagli USA dell’ultima settimana, gli investitori sembrano finalmente aver abbandonato la compiacenza sul rischio geopolitico che ha caratterizzato gran parte del 2017, ora che l’intenso turnover di posizioni chiave dell’Amministrazione USA ha portato all’ascesa e/o al rafforzamento di noti “falchi” di politica estera e politica commerciale. La rimozione del Segretario di Stato Tillerson e del consigliere della sicurezza nazionale McMaster e la loro sostituzione rispettivamente con Pompeo e Bolton segna il passaggio ad  una linea di  politica estera meno conciliante; l’accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran potrebbe essere il primo bersaglio, qualora gli Stati Uniti decidessero di rinnegarlo in occasione della prossima revisione trimestrale in maggio. Il balzo del petrolio ai massimi di gennaio riflette in parte il rischio che il milione di barili al giorno di produzione iraniana tornato sul mercato dopo l’accordo possa nuovamente svanire. Sul fronte della politica economica, il Presidente Trump ha annunciato una serie di misure commerciali restrittive nei confronti della Cina a seguito dell’indagine sulle violazioni cinesi alla proprietà intellettuale, che includono dazi alle importazioni, cause all’Organizzazione Mondiale del Commercio e restrizioni agli investimenti cinesi negli USA. La Cina è stata rapida ad annunciare contromisure, anche se l’esiguità del loro ammontare indica che il colosso asiatico non desidera lo scontro frontale ed in ogni caso preferisce tenere le sue armi migliori nel caso in cui la situazione degenerasse. Anche se è altamente probabile che la recenti iniziative americane facciano parte di una strategia negoziale precisa, fatta di azioni dirompenti per rompere lo status quo seguite da lunghe trattative più equilibrate (come sembrano confermare l’esenzione dell’Unione Europea dai  dazi  su  acciaio  e  alluminio, l’apertura americana su  un punto della rinegoziazione del NAFTA e la rinegoziazione del trattato di libero scambio con la Corea del Sud), la retorica commerciale USA è nettamente più aggressiva che in passato ed il processo è potenzialmente disfunzionale perché la reazione delle controparti commerciali non può essere data per scontata.
  • L’evento più  atteso  della  settimana  scorsa,  il  primo  meeting  della Federal Reserve presieduto da Jerome “Jay” Powell, è passato rapidamente in secondo piano, sommerso dalle notizie politiche, nonostante  abbia  riservato  sorprese,  con  una  retorica  più accomodante del previsto. La Fed ha aumentato i tassi di 25 bp al range 1,50/1,75% (come ampiamente atteso) e le previsioni sull’andamento dell’economia sono state riviste al rialzo, sia per la crescita che per l’inflazione; la  Fed  si  aspetta  ora  che  l’inflazione espressa  nella  sua misura preferita (il core PCE) sarà sopra il target del 2% per il 2019 ed il 2020. Ciononostante, il  percorso  futuro  di  rialzi  dei  tassi  è  meno “hawkish” del previsto, mantenendo la previsione di 3 rialzi per l’intero 2018 e alzando da 2 a 3 quelli del 2019 e Powell non ha confermato nella conferenza stampa l’orientamento più “hawkish” che sembrava essere emerso nelle sue audizioni parlamentari, mantenendosi pienamente nel solco della continuità di politica monetaria con il suo predecessore.

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