Il punto sui mercati

 Le  prese  di  profitto  iniziate  la  settimana  scorsa  sui  mercati  degli  asset rischiosi si  sono  trasformate in  una  fuga degli  investitori nella  seduta  di lunedì, in particolare dal mercato azionario USA. L’S&P 500 ha ceduto oltre il

4% in una giornata convulsa, soprattutto dopo l’accelerazione al ribasso in quello che pare un “flash crash” di dieci minuti alle ore 15 di New York. Wall Street ha così archiviato la peggior seduta dall’agosto del 2011, interrompendo la lunga serie di record positivi che erano stati conseguiti negli ultimi 12 mesi (a livello di valori dell’indice, di sedute consecutive positive, di numero di sedute senza ribassi di almeno il 5%, ecc.). Contemporaneamente lindice VIX di volatilità implicita dell’S&P 500 ha registrato il più grande rialzo della storia, sia in termini percentuali (+116%) che di punti (+20, a 37,32), arrivando al livello più elevato dalla correzione dei mercati di agosto 2015, generata dal caos delle riforma valutaria cinese. Cosa sta succedendo?

  • L’interpretazione  prevalente   è    che    il    sell-off    abbia    forti caratteristiche “tecniche” e che l’overshooting di diversi asset nelle sedute precedenti con posizionamenti sovraffollati abbia creato un terreno ottimale per movimenti di questo tipo. La velocità delle prese di profitto è compatibile con una rapida riduzione di posizioni da parte di investitori quantitativi in reazione a segnali tecnici (come il momentum ad un mese diventato negativo) e all’aumento della volatilità (le strategie ribassiste di volatilità erano tra le più sovraffollate dopo il trend calante del VIX per tutto il

2017). Che il movimento della volatilità sia tra i fattori scatenanti sembra confermato dalle notizie che iniziano ad arrivare della liquidazione di ETF e ETN ribassisti di VIX a sconti di anche il 90% del nominale, che hanno probabilmente alimentato una forte domanda di acquisti sulla volatilità per ricoprire le posizioni.

  • E’ opinione comune che il sell-off sia stato innescato dal rialzo dei rendimenti sul mercato obbligazionario, soprattutto dopo la serie di dati positivi sulle pressioni salariali della settimana scorsa, come i negoziati salariali in Germania e Giappone e, negli USA, i dati sul costo per unità di lavoro, l’indice di costo dell’occupazione e soprattutto i salari medi orari, cresciuti in gennaio del 2,9% su base annua, il livello più alto dal 2009. Questi dati si sono sommati al rialzo delle  aspettative  di  inflazione,  che  hanno  seguito l’andamento del petrolio, ed alla retorica moderatamente più “hawkish” dell’ultimo FOMC e degli ultimi discorsi pubblici di esponenti della Fed, spingendo i mercati a riprezzare in senso più restrittivo la linea di politica monetaria USA: a venerdì, i mercati obbligazionari prezzavano al 99% un rialzo di 25 bp nel meeting di marzo e per l’intero 2018 prezzavano pienamente 2 rialzi da 25 bp ed un terzo rialzo con una probabilità del 70%. Il fatto che inizialmente l’aumento dei rendimenti avvenisse contemporaneamente al ribasso del mercato azionario era particolarmente preoccupante, perché era compatibile con uno shock  da  inflazione,  con  conseguenti  rischi  di  stretta  della  Fed molto più forte. Lunedì, tuttavia, l’usuale correlazione negativa tra equity  e  bond  sembra  essersi  riaffermata:  il  rendimento  del

Treasury decennale è sceso di   15 bp al 2,70% e la probabilità di rialzo dei tassi a marzo è tornata sotto l’80%. Bisogna ricordare che i   bassi   livelli   dei   rendimenti  obbligazionari  prevalenti  fino   a dicembre non sembravano appropriati ad un ritmo di crescita dell’economia USA intorno al 3% annuo e con il tasso di disoccupazione ben al di sotto del livello di equilibrio di lungo termine.

  • E’ importante notare  che  i  fondamentali sono  rimasti  buoni e stabili.  L’indice  PMI  Manifatturiero  globale  (calcolato  da JPMorgan) è rimasto ai massimi recenti in gennaio (54,4 da 54,5 in dicembre), coerente con una crescita della produzione industriale mondiale oltre il 4% su base annua. Negli USA il report di gennaio conferma che le condizioni del mercato del lavoro sono quasi uniformemente solide e l’ISM Non Manifatturiero, a 59,9, ha sorpreso decisamente le attese ed è salito ai massimi dal 2005. A livello microeconomico, la stagione delle trimestrali americane ha continuato a sorprendere le aspettative: a venerdì, del 40% delle società dell’S&P 500 che avevano già comunicato i bilanci, l’80% ha superato il consenso sull’utile per azione, che registra una crescita su base annua del 12%. Dal momento che un’eventuale inversione del ciclo industriale mondiale (normalmente associata a maggiore turbolenza sui mercati) è improbabile a breve (o comunque non sarà evidente prima del secondo trimestre, quando una serie di distorsioni attese sui dati asiatici verrà meno), il rischio principale per lo scenario macroeconomico positivo che abbiamo delineato è rappresentato dalla restrizione delle condizioni finanziarie: il ribasso della Borsa e l’aumento dei rendimenti hanno determinato una significativa restrizione dai livelli ultraespansivi prevalenti fino alla  fine  del  2017.  I  dati  di  sentiment di  fine  febbraio e  marzo relativi a gennaio e febbraio saranno un test importante per la tenuta della crescita economica.

L’impatto macroeconomico dell’attuale stress sui mercati richiede che la restrizione delle condizioni finanziarie sia persistente per manifestarsi, nel qual caso tuttavia la probabilità di interventi di policy espansivi salirebbe notevolmente. Nel frattempo, le valutazioni si sono ridimensionale (il rapporto prezzo/utili 2019 dell’S&P 500 è tornato sotto 16) e gli investitori fondamentali  saranno  probabilmente  tentati  a   riapprocciare  i   mercati azionari (soprattutto quelli europei, che non sono all’epicentro del sell-off), tanto più che una correzione del 10% non è storicamente inusuale anche in uno scenario relativamente solido come quello attuale. Nelle attuali condizioni di mercato gli indici potrebbero rimbalzare rapidamente sulla percezione  che  il  riposizionamento delle  strategie  quantitative  sia terminato. Con il rischio tuttavia di vendite continue da parte di questa classe  di  investitori  (che  JPMorgan  stima  in  circa  100  miliardi  US$),  i eventuali compratori per il momento rimangono in attesa. Dal momento che il sell-off ha forti caratteristiche tecniche, sono da monitorare il supporto dinamico che sostiene il trend rialzista dal 2016 in area 2640 (poco sotto la chiusura di lunedì) e la media mobile a 200 sedute a 2533 (testata questa mattina dai futures).

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