In una settimana povera di dati macroeconomici, come usuale dopo il report USA sul mercato del lavoro, e senza appuntamenti rilevanti di politica monetaria, il mix di “Trumpflation” e “reflazione” che ha dominato i mercati negli ultimi 2 mesi ha registrato una battuta d’arresto nelle ultime sedute, lasciando il posto ad un raro episodio di prese di profitto simultanee sulle asset class rischiose, come l’azionario ed il credito corporate, e non rischiose, come i titoli di Stato. Inoltre la volatilità è tornata a salire, con l’indice VIX della volatilità implicita dell’S&P tornato sopra 11 (dopo 5 sedute al di sotto della soglia psicologica di 10). Nonostante certi mercati siano stati penalizzati più di altri (come il credito corporate high yield, le valute Emergenti ed i mercati azionari europei e giapponesi) ed una significativa volatilità intragiornaliera sulle Borse americane, i movimenti rimangono complessivamente modesti, con l’S&P 500 che ha chiuso la scorsa settimana in ribasso dello 0,21% (il primo dati negativo dopo 8 settimane). L’impressione è gli investitori siano stati comunque colti di sorpresa ed i movimenti dei mercati non sembrano pienamente coerenti con i catalizzatori che sono stati come all’origine della dinamica. L’incertezza sulla riforma fiscale USA potrebbe aver pesato sul US$, ma non è coerente con il rialzo dei rendimenti USA o il ribasso degli asset Emergenti. L’appiattimento della curva dei rendimenti è stato collegato alla debolezza del settore finanziario sui mercati azionari e del credito corporate; l’aumento del petrolio e del rischio geopolitico non si è riflessa nella performance positiva di US$, oro o titoli di Stato. Certamente la compiacenza degli investitori era diventata piuttosto alta, come mostra la reazione scomposta delle quotazioni azionarie delle società che riportano utili trimestrali o guidance di redditività inferiori alle attese.
- Le vicende della riforma fiscale USA confermano che, rispetto ad altre forze alla base dell’attuale dinamica di mercato (come lo scenario macroeconomico globale positivo o la retorica delle Banche Centrali), la “Trumpflation” è la più vulnerabile a prese di profitto poiché strettamente legata ad una dibattito politico quanto mai incerto. La proposta di riforma del Senato, per quanto di entità analoga a quella della Camera (stimolo fiscale di 1500 miliardi US$ in 10 anni), è piuttosto diversa come composizione (a titolo di esempio, il taglio dell’aliquota per le imprese al 20% è posticipato al 2019) e per le coperture proposte. La proposta della Camera dovrebbe arrivare al voto questa settimana e quella del Senato entro il 23 novembre. A quel punto inizierebbe il lavoro di riconciliazione delle due proposte per arrivare poi alla firma presidenziale. Considerando che il processo si sovrappone alle scadenze fiscali di dicembre, la possibilità che la riforma fiscale sia approvata entro la fine dell’anno potrebbe essere ridimensionata e dipende strettamente dai toni della retorica politica a Washington, un fattore non facilmente prevedibile.
- Il rapido appiattimento della curva dei rendimenti dei Treasury americani ha lasciato perplessi molti investitori, con il differenziale tra il rendimento del decennale e quello a 2 anni sceso ai minimi dall’autunno 2007. Storicamente un movimento di questo genere si registra nelle fasi finali del ciclo economico ed è anticipatore di debolezza dell’economia. Il credito corporate, soprattutto high yield,
sembra essere stato il più colpito negativamente da questa interpretazione. In realtà l’appiattimento della curva dei rendimenti è normale durante un ciclo di rialzo dei tassi come quello avviato negli USA (ed infatti persiste dal 2014), tanto più nelle attuali circostanze in cui il potenziale di crescita dell’economia USA è molto più basso che in passato (intorno all’1,5%), limitando lo spazio di rialzo dei rendimenti a lungo termine. Inoltre recentemente il flusso di dati macroeconomici USA è migliorato e la riforma fiscale crea ulteriori rischi al rialzo per la crescita economica nel 2018.
- La combinazione di solida domanda globale (un riflesso dello scenario macroeconomico positivo), lentezza della risposta dei produttori USA di “shale oil” allo scenario di prezzi più alti ed efficacia dell’OPEC nell’implementare i tagli concordati alla produzione (e nel segnalarne il possibile prolungamento nel 2018) ha favorito lo smaltimento dell’eccesso di offerta di petrolio sul mercato globale. Questo minore “cuscinetto” rende però le quotazioni del greggio più vulnerabili alla formazione di un premio per i rischi geopolitici, in particolare in Med io Oriente, che sembra il principale responsabile del recente rally dei prezzi di Brent e WTI oltre 60 e 50 US$/barile rispettivamente ma che è anche una variabile estremamente difficile da prevedere. L’ultima parte del rialzo è in effetti coincisa con l’epurazione di una buona fetta dei dignitari dell’Arabia Saudita da parte del sovrano (per spianare la strada verso la corona al figlio) e con l’acuirsi delle tensioni tra Arabia Saudita ed Iran a causa della vicende in Yemen e Libano. Agli attuali livelli le quotazioni del petrolio potrebbe iniziare ad avere conseguenze macroeconomiche significative, sotto forma di un aumento dell’inflazione nei prossimi mesi (che favorirebbe la normalizzazione delle politiche monetarie nei Paesi Sviluppati) e di una riduzione del potere di acquisto dei consumatori (che peserebbe sulla crescita economica). Il posizionamento degli investitori non è tuttavia favorevole alla prosecuzione del rally: il mercato dei futures segnala un sovraffollamento di posizioni rialziste degli speculatori ma ribassiste dei produttori (che bloccano il prezzo della produzione futura agli attuali livelli elevati).
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