L’ANALISI: i cicli economici non muoiono di vecchiaia ma per eventi recessivi esogeni o endogeni
Momentanea frenata? L’indice della paura CFSB evidenzia rischi elevati
La locomotiva USA nel primo trimestre 2015 ha decisamente tradito la ripresa tanto auspicata e ventilata nei trimestri precedenti, subendo una decisa contrazione del PIL nella seconda lettura del dato. E’ infatti stata rivista la crescita americana dal +0,2% della stima iniziale al -0,7% attuale. Una variazione non di poco conto visto e considerato che nell’ultimo trimestre 2014 il dato viaggiava ancora al +2,2% ed in quello precedente addirittura al +5%. Dal 2009 ad oggi era accaduto solo altre due volte che la crescita degli Stati Uniti subisse una contrazione tale da portare i valori in negativo. Un dato che però non sembra aver preoccupato troppo gli operatori finanziari ed il mercato azionario in quanto convinti che sia un semplice passo falso facilmente recuperabile nei trimestri successivi ed alla stregua di quanto accaduto nel primo trimestre 2014.
SOLO ECCEZIONALITA’ ?
L’opinione maggiormente diffusa tra i money manager rimane dunque quella che prospetta una momentanea frenata a cui possa seguire un deciso recupero fin dal trimestre in corso e questo perché a gravare sull’attività economica degli Stati Uniti sarebbero stati una serie di fattori ‘eccezionali’, tra cui il famigerato maltempo invernale. Lo scorso anno si era infatti verificata una situazione simile con una discesa del PIL nel primo trimestre causato del crollo delle scorte per colpa delle atipiche e straordinarie condizioni meteo. Una circostanza che, a differenza di allora e seppur il tempo non sia stato clemente neppure quest’anno, ha portato solo ad un rallentamento nell’accumulo di scorte di magazzino e dunque ad un minor contributo positivo al PIL. La frenata invece è arrivata da altri fattori, anch’essi considerati dagli analisti ‘eccezionali’, quali il forte apprezzamento del dollaro americano ed il crollo del prezzo del petrolio. Elementi questi ultimi in grado di far contrarre l’export a stelle e strisce e ridurre sensibilmente gli investimenti da parte del settore energetico.
SIA QUEL CHE SIA
Con il senno del poi è sempre facile trovare ragionevoli giustificazioni ai dati ed infatti la stessa Yellen, presidente della FED, ne aveva rimarcato in anticipo il carattere temporaneo e per alcuni aspetti accidentale ma è indubbio che il dato assoluto rimane comunque negativo. Quello che invece dovrebbe maggiormente allertare l’investitore è la tendenza di lungo termine che la decantata crescita USA ha ormai impostato dalla ripresa del 2009. Secondo Ambrose Evans-Pritchard del Telegraph, il tasso di crescita medio annuo post recessione e dunque di recupero è caduto dal 4.5% dei primi anni ‘80 al quasi 2% attuale e ciò nonostante gli oltre sei anni di tassi a zero e migliaia di miliardi stampati dalla FED. Perciò che sia colpa del meteo, del petrolio, del dollaro o altro ancora poco importa se tutto questo non tiene in carreggiata la crescita o peggio avvicina alla recessione. La tesi dell’eccezionalità appare quindi più un alibi per mantenere al top le quotazioni dei mercati azionari ed in attesa dei prossimi sviluppi endogeni all’economia USA o esogeni ad essa. Sviluppi economici che non sembrano essere avvallati dall’indicatore di “monitoraggio immediato” della Fed di Atlanta, il cosiddetto GDPnow, in quanto quest’ultimo e seppur rivisto leggermente al rialzo, prevede un modesto +0,8% e dunque ben lontano da quei tassi di crescita in grado di giustificare il perdurante rialzo delle quotazioni.
E’ RISCHIO CORREZIONE
Se l’economia americana nel primo trimestre ha tradito la ripresa confermando le continue difficoltà a imboccare una strada di crescita più sostenuta e potenzialmente meno esposta a shock e battute d’arresto, così non è stato per lo S&P500. Il mercato infatti continua a tenere i massimi nonostante il leggero storno di venerdì e questo seppur in presenza di profitti aziendali nuovamente in difficoltà e dati macro economici in peggioramento.
“Bad news is good news” dichiarano molti commentatori ovvero le cattive notizie rimangono le migliori alleate per l’ottimismo dei gestori, essendo queste ultime le sole argomentazioni proposte per un posticipo del rialzo dei tassi USA e dunque una tenuta delle quotazioni. Lo stesso Wall Street Journal in un editoriale anticipatorio del dato e dal titolo “In a Slow Economy, Negative Quarters Shouldn’t Surprise” rassicurava i lettori su come interpretare il possibile esito negativo ed alla fine auspicava che i responsabili politici (vedi FED) fossero attenti, in un mondo a bassa crescita, ad evitare i tipi di errori che possono trasformare un trimestre negativo in una recessione (vedi rialzo dei tassi). Nello stesso articolo però si evidenziava che una recessione negli Stati Uniti non sarebbe un’idea inverosimile in quanto, a quasi sei anni, l’espansione attuale è già ben oltre la media del dopoguerra e con la disoccupazione che si avvicina al 5%, un livello di solito associato con la piena occupazione, la spinta ciclica tende a dissolversi. D’altra parte ricordava che i cicli economici in genere non muoiono di vecchiaia e di solito sono uccisi, da tassi di interesse più alti, da una crisi finanziaria o da qualche altro shock come i prezzi del petrolio più elevati, che contrae la domanda e porta ad un calo della produzione e dell’occupazione, retroagendo sulla domanda stessa.
CONCLUSIONE
Cosa ucciderà definitivamente l’attuale ciclo economico non è ancora dato sapere e neppure a chi sarà data la colpa ma quel che indubbiamente traspare sul mercato azionario americano è la crescente dissociazione delle quotazioni dai dati macro. Un fatto sotto gli occhi di tutti gli operatori professionali e non più eliminabile con semplici scongiuri o illusorie speranze ma solo tramite apposite operazioni di protezione quali ad esempio le opzioni. Strategie che i grandi investitori utilizzano per proteggersi ed il cui maggior o minor impiego è desumibile dal CSFB Index, ovvero un’altro barometro della paura che però, a differenza del più noto VIX, è spesso anticipatore della volatilità futura. Osservando il grafico storico appare eloquente che picchi massimi raggiunti non siano di buon auspicio e se poi si aggiunge che il mercato azionario americano non presenta una correzione superiore al 10% da oltre 900 sedute è forse arrivato il momento di abbandonare i gesti scaramantici ed impostare adeguate soluzione di protezione e non solo sul mercato USA. Come recita un noto aforisma di borsa “la correlazione tra i vari mercati cresce, soprattutto quando essa è meno desiderata e cioè quando i mercati perdono”.
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