Di Pietro Mecarozzi
La
salute prima di tutto. A costo di qualsiasi shock, ora economico ora sociale. Una motivazione
unanime, scelta come guida per combattere l’ondata di coronavirus che ha
travolto il Nord Italia in questi giorni. Difficile da contestare. Come
difficile da contestare sono quei dati che, di riflesso, interagiscono con
l’avvento del virus cinese. A partire proprio da quelli economici.
Per intenderci: il bollettino sanitario in continua evoluzione, interessa
principalmente il Veneto e la Lombardia, regioni che da sole valgono il 31% del
Pil, ovvero 550 miliardi di euro, e dalle quali parte il 40% delle esportazioni
del Paese. Le ordinanze di chiusura che hanno coinvolto scuole, musei, uffici
pubblici, piccole e medie imprese (per quanto riguarda i comuni coinvolti nel
lodigiano), portano invece a galla i seguenti numeri: le aziende di Codogno e
Casalpusterlengo fatturano da sole 1,5 miliardi l’anno e ogni giorno di stop
può mandare in fumo 4 milioni di entrate, ritoccato a 18 milioni nel caso la
quarantena venisse estesa a tutta la provincia di Lodi. Un giovedì nero esteso
per l’economia italiana, che per molti economisti ha già innescato danni
permanenti nel fragile mercato nostrano.
L’espressione più utilizzata è quella di “cigno nero”, cioè un evento raro e
imprevedibile in grado di ribaltare l’economia mondiale e nazionale. Iniziando
dalla microeconomia fino ad arrivare alle Borsa mondiale: i listini europei,
nella giornata di ieri, hanno vissuto momenti negativi proprio a causa dei
timori legati al virus cinese. Piazza Affari, dopo un’apertura in ribasso
del 3,5%, nel pomeriggio ha ceduto ancora a -6%, Francoforte in flessione del
3,5%, Parigi del 3,4% e Londra del 3%. Il mercato, secondo Lorenzo Codogno,
visiting professor in practice alla London School of Economics, è alle prese
con «un riposizionamento» contro corrente a quello che era il trend positivo di
questo inizio 2020. In altre parole, il terremoto è solo all’inizio, le borse
provano a ovattare le scosse più forti, mentre in molti corrono ai ripari
rifugiandosi nell’oro (bene, per l’appunto, rifugio) e fuggendo da un petrolio
contagiato dall’effetto coronavirus.
Come può toccarci tutto ciò? È ancora presto per dare una risposta
definita, il
governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, parla di «un’impatto del
coronavirus che potrebbe pesare sul Pil dell’Italia di oltre lo 0,2%», mentre
Confimprese, registra
già una perdita del 30% nel retail in questo primo week end. Tradotto: il calo di
traffico nei negozi è già registrabile, i primi sintomi di una crisi che si
inserisce nel sistema economico di un Paese già in recessione, e che molto
prima di quanto si possa immaginare dovrà fare i conti anche con una
contrazione del flusso turistico.
Milano ne ha già misurato lo scotto da pagare: alla settimana della moda
milanese, infatti, si sono registrati mille compratori cinesi in meno rispetto
all’anno scorso, un calo dell’80%. Il mancato arrivo dei turisti da Pechino a
Venezia, Verona e Milano ha assestato un duro colpo ad albergatori e
commercianti. Gli
acquisti di lusso esentasse nel 2019 hanno come primi attori proprio i cinesi
(28 per cento del totale), per un totale di spesa di 462 milioni di euro, oltre
300 euro al giorno, circa 1.500 euro a viaggio. Il piatto piange e
l’Italia, Lombardia e Veneto in testa, non può fare a meno dei turisti e del
suo cuore finanziario. Come ricorda La Repubblica, poco a nord di Codogno ci
sono i quartieri generali di Eni, Saipem e Snam, la logistica Amazon in Italia
in direzione opposta, la meccanica piacentina e i gioielli dell’industria
alimentare emiliana. Mentre in zona Vo’ Euganeo è a rischio l’enorme galassia
delle 107 mila pmi della provincia di Padova che da sole valgono 29 miliardi di
fatturato. A
questo si aggiunge il blocco di ogni tipo di manifestazione nelle regioni
suddette: come avvenuto per il Carnevale di Venezia che, secondo le stime di
Confturismo, ha perso 22 milioni per l’effetto coronavirus.
Al netto di questo e utilizzando i criteri di previsione sul contagio del Johns
Hopkins Center for Health Security e quelli sull’impatto economico di Lee e
McKibbins (gli stessi utilizzati durante la crisi della Sars), PriceWaterhouseCoopers ritiene che già
oggi il conto che il mondo deve pagare in termini di rallentamento delle catene
di commercio sia pari a 570 miliardi di dollari. Questa somma,
prima di fare del caso italiano il più grave, si deve anche a quello che sta
accadendo in Cina, dove nelle prime settimane di febbraio le vendite di auto
sono calate del 92%, le transazioni immobiliari -90% e le importazioni hanno
già fatto schizzare al rialzo del 20% i prezzi del cibo.
In questo marasma globale, la strategia del governo italiano sul fronte
economico ricalca da vicino le procedure adottate in caso di terremoti e altre
calamità naturali. Mettere in quarantene le zone rosse ferma e aggrava la
situazione, in termini economici: nel giro di pochi giorni sarà infatti chiaro
che le ricadute non sono più solo quelle indirette.
In un quadro dove il 2019 si è chiuso con un segno meno nell’ultimo
trimestre e il rallentamento dell’economia tedesca a noi interdipendente, si
aggiunge pertanto la preoccupazione del coronavirus. Gli economisti, di fatto,
incrociano le dita nella speranza che il modello con il quale l’economia
italiana deciderà di cavalcare questa crisi sarà quello a V, che sì scende in
picchiata ma è anche pronto a risalire in breve termine, al contrario di quello
a U, che prevede una stagnazione molto più lunga e dispendiosa.
La verità, molto probabilmente, sta nel mezzo e per il momento, come detto, la
salute viene prima di tutto, anche dell’economia del nostro Paese.
Da Linkiesta
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