Che sia diffuso un certo clima di sfiducia, se non di pessimismo, tra gli italiani (nella veste di investitori), lo si intuisce non solo leggiucchiando qua e là i sondaggi di settore in Italia, in genere divulgati a fine anno, ma anche, e soprattutto, sbirciando i dati dell’attività commerciale delle banche specializzate nella gestione dei patrimoni. Scorrendo il consueto rapporto trimestrale di Assoreti, l’associazione delle banche e delle imprese d’investimento che prestano il servizio di consulenza in materia d’investimenti, si scopre per esempio che nei primi 9 mesi del 2018 la maggior parte degli istituti, che operano prevalentemente fuori sede tramite i consulenti finanziari, ha preferito parcheggiare i soldi dei loro clienti su conti e depositipiuttosto che investirli o tenerli investiti in fondi, polizze, titoli, Exchange traded fund e azioni.
I numeri. Da inizio anno al 30 settembre il saldo netto della liquidità è stato di poco inferiore a 7 miliardi di euro, il doppio di quanto registrato nel 2017, e ha portato la raccolta netta in risparmio amministrato nel periodo a superare gli 11 miliardi di euro (rispetto ai 4,3 miliardi dell’anno precedente) – 5 miliardi, invece, sono stati investiti in titoli, soprattutto azioni, titoli di Stato e certificati di investimento.
GLI ITALIANI STANNO TIRANDO IL FRENO
Gli investimenti netti in prodotti di risparmio gestito (fondi e polizze), cioè la differenza tra sottoscrizioni e riscatti, si sono invece dimezzati: al 30 settembre erano di poco superiori a 11 miliardi. Nello stesso periodo del 2017 avevano superato abbondantemente i 25 miliardi. Gli italiani, per lo meno quelli che possono permettersi di investire parte dei propri risparmi, stanno tirando il freno? Sì, o almeno quelli più ricchi.
IL CETO MEDIO-ALTO RESTA IMMOBILE
Sono queste, infatti, banche e società che seguono in genere il segmento “affluent” o “private” e gestiscono un patrimonio complessivo di 531 miliardi di euro. Così sono chiamati nel gergo bancario i clienti che hanno un patrimonio finanziario superiore a 50 mila euro (500 mila euro sul conto corrente è invece la soglia minima per essere considerati clienti di fascia alta). Con buona approssimazione, insomma, questi dati ci dicono come si sta muovendo in realtà il ceto medio e medio-alto italiano, un popolo formato in gran parte da professionisti, imprenditori e famiglie abbienti.
COME CRESCE LA LIQUIDITÀ
In dettaglio, considerando i primi cinque gruppi, che controllano oltre la metà di questo mercato, il saldo netto della liquidità in Fideuram (comprensivo delle reti Fideuram, Sanpaolo Invest e Intesa Sanpaolo Private Banking) ha superato i 2,1 miliardi di euro nei primi 9 mesi (1,3 miliardi circa l’anno prima), in Fineco (gruppo UniCredit) è stato di 1,4 miliardi (1 miliardo nel 2017) e in Banca Generali è stato di oltre un miliardo (era a 329 milioni). Banca Mediolanum nel 2017 registrava un saldo netto della liquidità addirittura negativo per 298 milioni (in altre parole i clienti preferivano investire piuttosto che tenere parcheggiati i soldi sul conto), mentre nel 2018 il dato è stato in positivo per 113 milioni di euro. Stessa dinamica in Allianz Bank FA, la banca del gruppo assicurativo: la liquidità al 30 settembre era a 698 milioni di euro; 12 mesi prima era negativa per 18 milioni nello stesso.
L’INVESTIMENTO IDEALE NON ESISTE PIÙ
Che non regni l’euforia tra investitori e risparmiatori lo dice anche la consueta indagine di Ipsos e Acri, l’associazione delle fondazioni e casse di risparmio, presentata in occasione della 94esima Giornata mondiale del risparmio il 31 ottobre. Per il secondo anno consecutivo è stato registrato un parziale disinnamoramento degli italiani per gli investimenti. «Sembra che l’investimento ideale, per gli italiani, non esista più», si legge nel rapporto che divide gli italiani in tre gruppi quasi omogenei: il 30% ritiene che l’investimento ideale proprio non ci sia; il 32% lo indica negli immobili, il 31% indica gli investimenti finanziari reputati più sicuri. La preferenza degli italiani per la liquidità è sempre elevata e riguarda il 62% dei risparmiatori. Aumenterebbe, secondo il rapporto, la quota di chi desidera investire una parte minoritaria dei propri risparmi, che passa dal 22% del 2017 al 26%. Queste, però, sono solo intenzioni.
I PAPERONI ALMENO NON SCAPPANO ALL’ESTERO
Diversi, invece, i risultati emersi dalla consueta indagine di Censis e Aipb, l’associazione italiana del private banking (le banche che si occupano dei Paperoni di casa nostra), secondo cui i detentori di grandi patrimoni sarebbero pronti a investire in Italia e sarebbero meno preoccupati per il futuro del Paese: il 46,5% dei Paperoni lo è rispetto al 62,2% degli italiani. Anzi, secondo l’indagine i Paperoni sarebbero (il condizionale è d’obbligo) meno propensi alla fuga all’estero: gli italiani, anche quelli con meno grano in banca, visto l’andazzo, se potessero, farebbero subito le valige (solo il 48,4%, infatti, resterebbe in Italia). I Paperoni, invece, vogliono restare in Italia – e si spera anche gran parte dei loro capitali – e investire nel Paese a fronte di meno tasse degli investimenti sull’economia reale. Ma, anche in questo caso, sono soltanto parole.
Da Lettera 43
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