Le commodities sono rimaste generalmente deboli nell’ultima settimana, risentendo del rafforzamento del US$, legato al repricing della politica monetaria della Fed in senso più restrittivo, e delle prese di profitto sulle commodities agricole prima dei report del Dipartimento dell’Agricoltura sui raccolti e sulle intenzioni di semina. L’eccezione è stato il petrolio, che ha sovraperformato gli altri comparti, con il WTI che ha recuperato quota 62 US$/barile ed il Brent tornato oltre quota 65 US$/barile. I report settimanali USA non sono stati particolarmente costruttivi, con la pausa nella produzione compensata dalla crescita delle scorte e dal rimbalzo del numero di nuovi impianti di trivellazione in attività. Finora la risposta dei produttori USA di shale oil è stata in linea con l’esperienza storica, per cui ci si può aspettare un ulteriore aumento dell’attività nelle prossime settimane, a dispetto dell’atteggiamento generalmente conservativo emerso dalle presentazioni dei management in occasione delle ultime trimestrali. Lo stesso OPEC ha riconosciuto il ritorno della produzione USA sul mercato, che aumenta tuttavia la probabilità che il rispetto degli accordi di taglio della produzione rimanga elevato con l’avvicinarsi del meeting di giugno. Se l’attività estrattiva americana è un rischio al ribasso per le quotazioni del greggio, la rimozione del Segretario di Stato USA Tillerson aumenta la probabilità che l’accordo sul nucleare iraniano possa essere rinnegato dagli Stati Uniti, mettendo a rischio fino a 1 milione di barili al giorno di produzione dell’Iran. Come conseguenza, se a breve termine le quotazioni del WTI sembrano convergere verso quota 60 US$/barile, lo scenario per il secondo semestre potrebbe essere più costruttivo del previsto.
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