Licenziamenti. Salveranno le imprese?

A fronte della crisi del mercato, c’è una direzione che negli ultimi anni sembra accomunare le aziende, particolarmente negli Stati Uniti, ma anche in Europa: ridurre il personale (e i costi). La ricetta funzionerà?

Che lo si voglia chiamare downsizing, ridimensionamento o ristrutturazione, il licenziamento di personale ha dei costi nascosti di lungo termine che potrebbero rendere l’operazione inutile.

Certo, ridurre lo staff a volte può essere necessario a fronte di un calo di produzione massiccio. Se l’Italia tende a tutelare il lavoro esistente con strumenti quali la cassa integrazione, gli Stati Uniti hanno leggi che consentono licenziamenti a dir poco rapidi e spesso vengono invocati a modello da molte nazioni i cui imprenditori vorrebbero maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Occore valutare con cura innanzitutto i supposti benefici di queste “ristrutturazioni”. Per cominciare, l’idea che i licenziamenti aumentino il valore di borsa o il profitto si è rivelata in molti casi errata. Uno studio condotto su 141 annunci di licenziamenti tra gli anni ’80 e fine anni ’90 ha rivelato come questi abbiano avuto effetti deleteri sulla quotazione del titolo. Un’altra ricerca su 1,445 annnunci di downsizing ha rivelato effetti analoghi e l’analisi di compagnie appartenenti all’indice S&P 500 rivela che quelle che hanno tagliato, hanno continuato a produrre profitti inferiori a quelle che non hanno optato per il downsizing.

Ammesso e non concesso dunque che la strategia risulti efficace nel breve termine per contrastare l’emorragia, restano da stimare i costi silenti dei licenziamenti. Oltre alle liquidazioni, alcuni effetti comuni successivi alla ristrutturazione sono: aumento di giorni di malattia tra il personale rimasto, basso morale e rischio di conflitto, potenziali cause civili, sabotaggio, riduzione del senso di affiliazione e diminuzione della produttività. Secondo uno studio della società Leadership IQ: L’87% del personale che sopravvive al downsizing è meno propenso a raccomandare la propria società come un buon posto di lavoro.

Il 64% dichiara che la produttività dei colleghi è calata. Il 77% dichiara che vengono commessi più errori nelle procedure. Il 61% dichiara che le prospettive della compagnia sono peggiorate

Questi elementi di sfiducia incidono negativamente sulla capacità dell’azienda di attrarre in futuro nuovi talenti e di trattenere quelli esistenti. Dal momento in cui i licenziamenti vengono annunciati infatti, il rischio è anche quello di perdere persone che si volevano trattenere, che cercano occupazione altrove visto il tumulto e l’incertezza, sottraendo così competenze chiave e peggiorando ulteriormente la capacità dell’impresa di stare sul mercato.

La diminuzione del morale è poi un fattore da tenere in seria considerazione. Secondo la Gallup è normale attendersi una percentuale di disimpegno volontario tra il 16 e 19% a seguito del downsizing, senza contare che la demotivazione porta più frequentemente a stress, piccoli furti, danni e condotte scorrette.

Se questi costi sono contenibili nel breve termine, quelli di lungo medio periodo rischiano di esuberare i vantaggi. Stando ad alcuni esperti di risorse umane, molte aziende, nel giro di pochi anni si ritrovano ad assumere, ritornando così ai livelli di staffing precedenti il ridimensionamento, avendo però dovuto nel frattempo sostenere costi di selezione, formazione del nuovo personale, riorganizzazione e straordinari pagati al personale esistente durante il periodo in cui molte posizioni erano vacanti.

Dal punto di vista sociale invece i licenziamenti creano costi e drammi. Secondo una ricerca neozelandese la probabilità di un disoccupato di suicidarsi aumenta di due volte e mezzo, così come le condotte autolesive e la mortalità in generale. Tutto questo, insieme all’aumento di alcolismo, fumo, abuso di droghe e depressione che colpisce chi ha perso il lavoro, è un costo che ricade sulla sanità e il welfare. Inoltre occorre considerare il circolo vizioso per cui licenziando le persone si deprimono i consumi, portando a loro volta le aziende ad un calo di richieste. La contrazione preventiva dei consumi avviene infatti anche da parte di coloro che sopravvivono al downsizing iniziale, ma che cominciano a sentirsi più instabili e minacciati nella loro sicurezza.

E’ un puzzle di difficile soluzione, sia per i governi che per le aziende. L’Italia sta contenendo il prezzo della disoccupazione con forme assistenziali anche piuttosto obsolete, in grado comunque di tamponare le conseguenze citate; lo sta però facendo al costo collaterale non indifferente della disoccupazione giovanile. Un equilibrio che non potrà reggere molto a lungo. Gli Stati Uniti incarnano forse il paradigma opposto, quello del mercato più aperto e meno garantito, “libero e selvaggio”, ma dubitiamo che il downsizing li salverà dalla montagna di debiti su cui siedono Stato, famiglie e molte imprese.

Alcune aziende nel mondo hanno però dimostrato di poter reggere alla tempesta, non hanno licenziato, hanno continuato ad assicurare qualità al mercato e hanno aspettato che morissero i competitors per la ripartenza. Non è un caso che però non sia stata la strada più battuta, forse perché la soluzione è tanto semplice da dire, quanto difficile da applicare: guadagnare di meno, lavorare di più (e meglio).

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.