Licenziamenti per un raffreddore?

licenziamentoMentre in Italia si discute di articolo 18 e licenziamenti, mi è venuto in mente un servizio che vidi alle Iene tempo fa e girato in India. Il reportage mostrava le condizioni di lavoro nei call-center del paese. In mezzo alla povertà, tra bambini scalzi, carretti e rifiuti, si ergevano immensi palazzoni ultramoderni, sedi delle compagnie a cui i grandi gestori telefonici appaltano il servizio di customer care.

Il filmato mostrava giornali pieni di annunci per lavoratori in grado di parlare soprattutto l’inglese, ma anche italiano, spagnolo e altre lingue. Questi lavoratori iniziano solitamente il loro turno verso la mezzanotte, o comunque in un orario compatibile con i fusi orari europei, in modo da poter ricevere le telefonate che noi crediamo di destinare a un recapito di Roma o Milano. Fuori dall’ingresso delle sedi, campeggiavano rudimentali bacheche in legno, con deifoglietti in cui erano elencati i nomi e i turni di lavoro dei dipendenti. Su qualcuno veniva tirata una riga: significava che era stato licenziato. Lo apprendeva così e se ne tornava a casa. Motivo di licenziamento? “Un mio amico aveva il raffreddore”, riportava un ragazzo al giornalista.

Gli intervistati erano in molti casi, non studenti universitari, ma veri e propri laureati, in particolare in lingue, che pur sognando un futuro diverso, si adattavano di buon grado a quel mestiere. “Io lavoro part-time” ha detto un ragazzo. Il suo part-time però consisteva in 12 ore di lavoro notturno. La paga? Da 130 a 200 euro mensili.

E’ inutile analizzare i soliti problemi connessi con la globalizzazione, lo sfruttamento della manodopera e la totale assenza di diritti sindacali. Non è questo ad avermi sorpreso. Quello che mi colpì, ricordo ancora, fu l’incredibile serenità di quei ragazzi, sottoposti a turni massacranti, sottopagati per le loro competenze e che non sembravano tuttavia mostrare segni di stress significativi. Non sono stressati quanto saremmo noi in quelle condizioni perché sono mentalmente “settati” su tempi diversi. La vera ragione di preoccupazione per noi lavoratori europei è che quand’anche il mondo asiatico raggiungesse livelli di sindacalizzazione e di diritti tali da ripristinare una correttezza nella competizione, resterebbero comunque avvantaggiati da quella che ormai è una diversa programmazione psicologica.

La mente ha un’infinita potenza nel modellare la percezione del tempo. Per questo Einstein scrisse: “quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto, ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività”. La distorsione del tempo mentale può essere frutto di un esercizio costante. Pensiamo ai tennisti, che fin da ragazzini vengono allenati sulla reattività. Ricevere un servizio che arriva ad oltre 100 miglia di velocità ricede di coordinarsi ed eseguire una risposta in meno di mezzo secondo, quello che ci mette ciascuno di noi a battere le ciglia.

La stessa cosa sta accadendo all’orologio mentale degli asiatici: vivono in un mondo veloce, in cui 12 ore trascorrono come quattro delle nostre, che al contrario apparteniamo a un mondo lento, stanco e incapace di decisioni forti. Per questo sarà difficile che leggi, accordi o trattati possano aiutarci a contenere l’ascesa della grande potenza nascente, perché la loro forza è mentale: ad oggi sono semplicemente “più adatti alla sopravvivenza”.

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