Diversi autori già in passato avevano predetto un possibile futuro segnato dalla fine del lavoro.
Un mondo simile ai film di fantascienza, in cui alle macchine viene affidato il compito di mandare avanti la società, mentre gli uomini vengono sgravati da oneri che per millenni hanno afflitto la loro esistenza (pensiamo ai lavori usuranti, che spesso causano migliaia di morti e infortuni, ma anche allo stress, problemi alla schiena e sofferenza psicologica che spesso caratterizzano anche molti lavori d’ufficio) e possono godersi l’esistenza, dipingere, suonare o vedere il mondo.
Uno scenario all’apparenza utopistico, per alcuni forse inverosimile, ma che inverosimile non è completamente: già disponiamo di auto senza guidatore e siamo non lontani da auto volanti, mentre l’intelligenza artificiale è già in grado di sostituire un umano in diversi compiti, ad esempio gestire una prenotazione in una conversazione telefonica, senza che si noti la differenza.
Un futuro segnato dalla fine del lavoro dovrebbe dunque essere visto come un punto di arrivo per la civiltà, ma richiederebbe un totale cambiamento di tutti i sistemi di potere, economici e politici, che attualmente regolano il nostro vivere quotidiano.
I governi invece continuano a rincorrere consenso con la promessa di posti di lavoro e chi è percettore di reddito di cittadinanza o disoccupato ha ancora lo stigma sociale di persona di basso status, “inutile” o “parassitaria”.
Tuttavia il lavoro sta effettivamente scomparendo. Lo vedo nel quotidiano. Per esempio nel mio ambito HR, ormai esistono numerose aziende di software che offrono sistemi integrati e automatici per fare perfomance review, misurare employee engagement, e gestire piani di sviluppo, che fino a 5-10 anni fa riempivano intere giornate di svariate risorse nel dipartimento HR, semplicemente perché venivano fatte in modo manuale. Oggi quelle figure banalmente non servirebbero più. Eppure vengono comunque assunte con job description spesso fumose. Sistemi analoghi esistono in procurement, finanza, marketing e via dicendo. Per esempio, per la mia società di consulenza, io fotografo gli scontrini e le ricevute e l’intelligenza artificiale della app le classifica già per categoria, ne estrae l’ammontare e le inserisce nella corretta voce di costo per la contabilità. Quante ore di lavoro ha rubato ad un accountant? O meglio quanti accountant ha fatto sparire?
Ma questo si applica spesso anche alle figure tecniche, visto che grazie al deep learning, l’intelligenza artificiale poi impara a programmarsi da sola. Non a caso, presso una nota multinazionale di prenotazioni di viaggi online, giunsi a capire dopo ore di conversazioni, che l’intelligenza artificiale era interamente responsabile per le campagne mail, i suggerimenti di viaggio, e tutto il digital marketing, nonostante il capo dipartimento continuasse a buttare dentro nuovi analisti, la cui funzione non fu assolutamente in grado di giustificare. Come moltissimi capi, stava semplicemente gonfiando il dipartimento per diventare il “generale di un esercito più grosso”e sfruttarlo o per giustificare il prossimo scatto, oppure metterlo in curriculum per meglio cambiare lavoro. Ma quegli analisti, in ufficio si giravano i pollici.
Rifiutando di intraprendere un viaggio consapevole verso la riduzione graduale – se non proprio fine – del lavoro, ci stiamo spingendo invece verso l’era del “lavoro fuffa”.
Mentre molti dei lavori manuali, non d’ufficio o non del tutto automatizzati sono sottoposti alla pressione quotidiana del rapporto con l’utenza (medici, infermieri, insegnanti, parrucchieri, rider, ristoratori, etc.), migliaia di figure aziendali continuano a venire buttate dentro queste multinazionali apolidi e spesso sovrane rispetto agli Stati, per ruoli che la tecnologia ha già svuotato di una raison d’être da tempo.
Così si è creato il rapporto incestuoso tra i governi e le multinazionali tecnologiche americane, ad esempio. Queste ultime ormai sempre più simili a governi socialisti, che elargiscono lavoro-fuffa a migliaia di persone, rigorosamente da allineare al pensiero unico progressista e politically correct, e in cambio i governi chiudono due occhi sul fatto che non stanno pagando un centesimo di quelle tasse che dovrebbero invece essere usate proprio per finanziare redditi a tutte le persone per cui non esiste e non esisterà più un posto nel mondo del lavoro (se non attraverso appunto lavori-fuffa) e che spesso vengono invece pure demonizzate.
Queste stesse multinazionali ormai sono sorrette dal prodotto, spesso creato da un manipolo di ingegneri che non costituiscono neanche l’1% della loro forza lavoro, e dal brand che ormai è un’entità dotata di vita propria, e prescinde spesso dalle persone.
E il paradosso diventa che quando chiami il sales team capita pure di ricevere risposte svogliate. Per esempio Workday vale 63 miliardi in borsa e con 12,500 dipendenti, in due settimane non sono riuscito nemmeno a parlare con qualcuno per rinnovare il contratto annuale. Ma li cerchi perché banalmente ti serve il software, che si e no 300 ingegneri di quei 12,500 dipendenti hanno prodotto, in barba alla discutibile utilità dei loro venditori, addetti marketing o quant’altro, che pure vengono assimilati in un unico calderone sotto la parola più di moda, e al tempo stesso più comica di questo decennio: “i talenti”.
La realtà è che le multinazionali si riempiono la bocca della parola talenti tanto quanto riempiono gli uffici di ruoli fuffa, di scimmiette ammaestrate che hanno come principali responsabilità poco più di un click per accendere e spegnere una macchina.
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