Lavoro, giovani e ipocrisie

giovani Il problema dell’occupazione giovanile in Italia va ben oltre il dato (scandaloso) del 36%. Perché per occupazione non si deve intendere solo avere un lavoro, ma occorre anche capire quale lavoro, con che prospettive e con che traiettorie di carriera.

E quindi il problema è molto più serio perché anche quel 60% di giovani che è occupato spesso lo è con compiti puramente esecutivi, traiettorie di carriera inesistenti, mansioni routinarie e poco creative e potere decisionale quasi assente.

Qualche riforma può intervenire a sanare il problema? No. Il problema è culturale, perché la verità è che in Italia se sei giovane non sei credibile. Qualche azienda ha il coraggio di dirlo chiaramente, anche se la maggior parte della società e del mondo del lavoro vivono nell’ipocrisia.

Del resto si fa presto ad accorgersene anche andando al bar o dal benzinaio, o da un negoziante: se hai meno di trentacinque anni ti trattano tutti con quell’accondiscendenza stucchevole, ti danno del tu e se possono ti fanno anche un po’ di paternale.

Magari devi farti crescere un po’ di barba, portare gli occhiali, vestire un gessato, il tutto per essere ascoltato da una coorte di bolliti che da trent’anni sfascia ininterrottamente una delle nazioni col più alto potenziale al mondo. E a lavoro capita di sentirsi dire: “ma come sei giovane!” e dover rispondere “quindi dovrei essere disoccupato?”. Figuriamoci essere magari dirigente!

Poi succede invece di accendere un programma sulla tv satellitare e vedere un reportage in cui è proposta la giornata di un anziano signore californiano che da come raccontano è un produttore storico di format televisivi, un’icona nel settore. A un certo punto dice alla troupe che si andrà a trovare il vicedirettore di un importante network televisivo. Mi aspetto chissà chi. Dietro la porta c’è un “ragazzo”, non più di trentacinque, chioma fluente, lo riceve in ufficio in polo e io resto basito. Poi mi arrabbio  per essermi stupito. Ricordo a me stesso che la follia siamo noi e che non devo mai lasciarmi piegare all’idea che questa sia normalità.

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