La riforma dello smart work non si arresterà

La crisi del coronavirus ha portato alla luce alcune ovvietà nel mondo del lavoro. Per esempio che risultato e performance sono spesso svincolati dalla presenza fisica in un determinato luogo, che le trasferte di lavoro sono spesso un viaggio inutile per dirsi cose che su Zoom si possono sunteggiare in un’ora, o scuse dei i dirigenti per sentirsi importanti e impegnati o mettere qualche cena in nota spese e accumulare nel frattempo miglia sulla carta.

Il virus ha solo accelerato fenomeni già in lento progresso. E se Bill Gates dichiara che il 50% dei viaggi di lavoro spariranno, ogni giorno arriva notizia di una nuova azienda che annuncia il remote work permanente della propria forza lavoro, dapprima imprese tech come Twitter, Zoom o Spotify. Quest’ultima, che intanto ha superato Royal Bank of Canada come azienda di maggior valore del paese, ha fatto del remote work un cardine di employment branding. In parole povere dice: ti assumiamo dove vuoi, se abbiamo un ufficio in quel paese ti facciamo un contratto, sennò ti ingaggiamo come consulente. Se vuoi lavorare dalle Maldive fai pure, basta che ti svegli allo stesso fuso orario del tuo team.

Ma se si trattasse di un manipolo di aziende hi-tech si potrebbe pensare a un fenomeno ancora agli albori. E invece di vera rivoluzione si tratta, quando imprese in settori più tradizionali come Schroeder o Siemens annunciano lo smart working permanente e così fa anche DBS, la prima banca di Singapore, seppure in percentuali diverse ma non inferiori a un 40% di lavoro da casa.

E’ evidente che sono in atto fenomeni di cambiamento radicale, che a mio avviso sono destinati ad accelerare. Non è facile fare un quadro del futuro di viaggi, lavoro, hospitality, ma qualche previsione voglio azzardarla.

La prima è che la generazione millenial si è espressa chiaramente sul tema. Adora il lavoro da remoto e l’idea di poter allo stesso tempo accrescere sì il conto in banca con un salario, ma anche arricchire il proprio passaporto di timbri e la propria pagina instagram di scatti da isole indonesiane e spiagge del Brasile. Questo spingerà le aziende che oggi non sposano la politica del remoto a dover accodarsi per non perdere vantaggio competitivo nell’attrazione dei talenti.

A proposito di talenti, la seconda idea è che la gig economy e l’outsourcing, ossia dare lavoro a prestazione o delocalizzare in paesi come India o Filippine, non potranno che essere ulteriormente spinti da questo trend. Se il lavoro è remoto comunque, perchè non pescare a mani piene fra un centinaio di milioni di laureati qualificati, fluenti in inglese e a minor prezzo che già offrono i mercati asiatici?

A questo proposito, la forbice dei salari andrà però a stringersi, cosa già in atto da anni, non solo in Cina dove nelle città tier 1 e tier 2 il fenomeno è stato rapidissimo, ma anche negli altri paesi dell’Asia: per intenderci, a Manila, il cui costo di vita è circa la metà di Milano, già nel 2020,prima del Covid  si faticava a trovare un HR Manager  a meno di 2000 euro al mese.

E le città? Gli uffici? Questo è il terzo tema. La realtà è che San Francisco, Hong Kong, Tokyo, New York già erano metropoli insostenibili, Seattle lo stava rapidamente diventando quando ai giganti esistenti si è aggiunta l’esplosione di Amazon. Queste città stavano ormai diventando una corsa senza fine a stipendi sempre più alti per attrarre talenti in tech e finanza che si trovano a pagare affitti esasperati, spesso al di sopra di 3000 dollari al mese, in un ecosistema di caste con al vertice venture capitals, fondatori e finanza, poi manager e manodopera specializzata come software developer e infine una casta di pariah come i vari autisti e food delivery delle app, dilaniati da una forbice insostenibile fra stipendi da gig economy e costi di vita alle stelle.

Il lavoro remoto può costituire uno sfiatatoio per queste metropoli, con molte aziende della Silicon Valley che già hanno adattato la propria struttura assumendo o spostando dipendenti in zone a più basso costo come l’Arizona, con riduzione salariale.

Ma c’è chi rischia grosso in questa transizione, come commercial real estate, con aziende pronte a rinegoziare affitti e ridurre metri quadrati, e tutte quelle attività quali ristoranti, bar e affini che vivono dei “commuter” e del traffico pedonale nella pausa pranzo. E che dire del settore hospitality?

Anche qui occorrerà reinventarsi. Molti dei pranzi di lavoro nel ristorante sotto l’ufficio verranno deviati sugli ordini delle app. Certo a vincere ancora è l’e-commerce ma nella ristorazione chi si muoverà rapidamente potrà cavalcare il cambiamento. A Singapore già ci sono nuove attività di sola cucina, in zone periferiche e senza spazio retail per il pubblico, ad affitto il più contenuto possibile, che vendono solo tramite le app.

L’hospitality sarà un grosso punto di domanda. Con un calo dei viaggi di lavoro e se nel breve il traffico aereo vedrà una ripresa magari lenta, mi aspetto comunque un aumento totale nel lungo periodo. Ai viaggi di lavoro sopperiranno molti più viaggi personali. Il turismo sarà enormemente trainato dalla Cina, ma con una settimana corta in smart work magari ci sarà più spazio per weekend lunghi anche in Europa. O forse alle ferie di agosto si sostituiranno mesi interi a Bali o Chang Mai? Per chi fa smart work totale, con uno stipendio italiano, due mesi in Indonesia o Thailandia significano al tempo stesso fare vacanza e risparmiare pure danaro, giocando sul costo della vita.

Questo potrebbe far pensare a una risurrezione del modello Airbnb, ideale per periodi lunghi a basso costo, a dispetto di hotel di lusso più adatti per business trip? Uno scenario fra i vari possibili.

Comunque vada, una rivoluzione è in atto e una cosa è ormai chiara: non si tratta più di un esperimento temporaneo.

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