Il vero nodo è la giustizia tributaria

L’entrata in vigore dallo scorso 1 ottobre degli accertamenti esecutivi, ossia degli accertamenti che funzionano anche da cartella esattoriale con intimazione al pagamento entro 60 giorni, sta moltiplicando il disagio dei contribuenti e, in particolare, sta moltiplicando gli appelli e gli allarmi lanciati dalle associazioni di categoria della piccola e grande impresa.

I vari “superpoteri” attribuiti ad Equitalia imprimono, senza dubbio alcuno, una forte accelerazione ai tempi di riscossione coattiva dei tributi e rendono estremamente labile il confine tra efficienza e ferocia nell’azione amministrativa. Affermare però che, dopo 60 giorni dall’accertamento, parte l’esecuzione coattiva e il pignoramento di beni, conti correnti e crediti, come spesso capita di leggere, significa avere un’idea molto approssimativa di ciò di cui si sta parlando.

Queste norme sono state partorite nell’estate del 2010 e, nella loro originaria formulazione, prevedevano effettivamente che questo potesse accadere. Da subito e per parecchi mesi, nel perdurante silenzio delle associazioni di categoria delle imprese, piccole e grandi, i commercialisti italiani denunciarono in solitudine l’autentica follia di simili previsioni, attirandosi non certo le benemerenze dei vertici dell’Agenzia delle entrate e del Ministero dell’Economia.

In verità, le critiche dei commercialisti, conoscitori della materia e dei delicati equilibri che caratterizzano il rapporto tra fisco e imprese, erano finalizzate a tutelare non solo queste ultime, ma anche lo strumento dell’accertamento esecutivo che, di per se stesso, non è irricevibile, ma lo diventa se l’accelerazione impressa alla riscossione diviene del tutto incompatibile con i tempi della giustizia tributaria, ove il contribuente presenti ricorso. Questa azione di sensibilizzazione ha indotto il Parlamento ad introdurre la scorsa primavera alcune modifiche alla disciplina originaria, nelle more della sua entrata in vigore.

Oggi, se non si paga entro 60 giorni dal ricevimento di un accertamento esecutivo, i tempi che caratterizzano la riscossione coattiva sono i seguenti:

– prima di altri 30 giorni (quindi 90 dalla notifica dell’accertamento), Equitalia non può procedere nemmeno con le misure cautelari, ossia l’iscrizione di ipoteca sugli immobili e il fermo amministrativo dei veicoli;

– prima di altri 180 giorni (quindi 270 dalla notifica dell’accertamento), Equitalia non può avviare i pignoramenti e le altre attività che caratterizzano l’esecuzione forzata.Considerato che, se il contribuente presenta istanza di adesione all’accertamento, i termini restano sospesi per ulteriori 90 giorni, ivi compreso il caso in cui l’accordo bonario tra fisco e contribuente non si perfezioni, l’esecuzione forzata su immobili, conti correnti e altri beni può arrivare a rimanere sospesa fino a 360 giorni dalla notifica dell’accertamento.

Tutto bene dunque?

Assolutamente no, ma i problemi sono da ricercare non in queste tempistiche, di per se stesse ragionevoli ora che risultano così configurate, quanto nel fatto che, anche così, la giustizia tributaria non è in grado di esaminare per tempo gli eventuali ricorsi dei contribuenti, né le richieste di sospensione della riscossione in pendenza di giudizio.

Lo scandalo non è che lo Stato disegni uno scenario efficiente nella riscossione dei tributi, ma che ne disegni uno feroce, potenziando all’infinito la riscossione e non potenziando mai la giustizia tributaria, così che saranno sempre più numerosi i casi in cui i contribuenti si vedranno dare ragione solo dopo essere stati escussi e, magari, anche per questo falliti.

Dopo aver taciuto praticamente sino all’entrata in vigore delle nuove disposizioni, forse per scarsa dimestichezza con la materia e poca disponibilità a fare sistema con chi invece di queste cose ne capisce, le associazioni di categoria della piccola e della grande impresa devono ora rendersi conto che la vera battaglia risiede nella richiesta di una giustizia tributaria che sia efficiente quanto la riscossione e, soprattutto, indipendente dal Ministero dell’Economia e dall’Agenzia delle Entrate.Questo è ciò che chiedono coloro che, come i commercialisti italiani, non pensano certo che evadere sia un diritto, ma pensano anche che sia un diritto del cittadino, in caso di ricorso, non essere trattato da evasore fino a quando non si è espresso sul punto un giudice terzo e indipendente.

La questione è molto più delicata di quanto non si creda, perché la scorsa estate, nell’ambito delle due manovre finanziarie, il governo ha invece tentato di depotenziare ulteriormente la giustizia tributaria, sia dal punto di vista della composizione dei suoi organici (espellendo tutti i soggetti iscritti ad Albi professionali, a favore di funzionari ausiliari dell’amministrazione finanziaria e di avvocati dello Stato, tra i cui compiti rientra anche la rappresentanza in giudizio dell’Agenzia delle entrate), sia dal punto di vista della sua già insufficiente autonomia dal Ministero dell’Economia.

Solo il “grido di dolore”, con tanto di lettera al Capo dello Stato, dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria, ha fatto rientrare il tentativo, evitando quello che i magistrati tributari stessi ebbero modo di definire un vero e proprio tentativo di addomesticamento.

La partita però è ancora aperta e lo dimostra l’introduzione di un istituto come la “mediazione tributaria”, resa obbligatoria per le controversie fino a 20.000 euro, prima di poter presentare ricorso avanti il giudice tributario. L’idea della mediazione per deflazionare il contenzioso tributario di per se stessa è ottima.

Peccato però che, in ambito tributario, dietro la parola “mediazione” vi sia non uno snello procedimento extra-giudiziale davanti a un mediatore terzo, ma un procedimento amministrativo nell’ambito del quale il ruolo di “mediatore” è affidato a un altro ufficio della medesima Agenzia delle entrate che è anche una delle due parti in causa.

Per quanto possa apparire incredibile, mai come sotto questo governo, che per il resto fa del garantismo più totale la propria bandiera, anche di fronte alle più turpi ipotesi di reato, si sta cercando di attribuire ai PM “fiscali” dello Stato non solo il potere di accertare e riscuotere, ma pure quello di decidere sulla fondatezza delle loro stesse contestazioni.

L’Agenzia delle entrate e i suoi funzionari meritano tutto il nostro rispetto per l’attività che conducono, ma, in uno Stato di diritto, la terzietà del giudice, anche rispetto alla pubblica amministrazione che è parte in causa, rimane lo spartiacque tra essere cittadini ed essere sudditi del Paese in cui si vive.

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