Non fosse stato per le sorprendenti – perché inusuali – parole del Papa di domenica scorsa, il dibattito potrebbe continuare per mesi senza che nessuno ponga al centro dell’attenzione il tema dei lavoratori precari. Non si sa con esattezza neanche quanti siano: cinque milioni? Sei?
Conta poco sottolineare l’enormità della cifra, come conta poco il fatto che la classe politica che ha determinato la condizione di cittadinanza negata vissuta dalla maggioranza degli under quaranta – dunque la maggioranza delle giovani famiglie – fosse in prima fila ad applaudire Benedetto XVI. Conta poco per la debolezza contrattuale di queste persone che si trasforma in reddito basso e in debolezza politica, tema di cui riempire i comizi ma da eludere nei programmi e nelle legislazioni.
Eppure questa settimana l’Economist ha pubblicato dei dati da far rabbrividire chiunque avesse un po’ di senso del bene pubblico, di senso del futuro. Non solo la disoccupazione giovanile in Italia è ai massimi storici, a circa il 30%. Non solo i giovani e gli adulti non anziani hanno in maggioranza un lavoro precario e sono i primi a esser licenziati in qualsiasi azienda pubblica o privata.
La conseguenza terrificante di questo processo è che l’Italia è il paese dell’OCSE con il maggior numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non fanno nulla, i cosiddetti “scoraggiati”, che né studiano, né cercano un posto di lavoro – dunque non sono disoccupati, perché per meritarsi questa qualifica bisogna cercare un lavoro.
In Italia gli scoraggiati sono il 5% che è una cifra spaventosa se si pensa che la seconda in questa triste classifica è l’Irlanda con poco più dell’1%, mentre in tutti gli altri paesi quello degli scoraggiati è un fenomeno triste ma marginale, che interessa uno zero virgola. In Italia invece riguarda un giovane su venti, che si lascia vivere senza formarsi, senza costruire nulla, in un’età in cui si generano tutte le possibilità da cogliere nel corso della vita. Quel 5% di scoraggiati non parla al difficile presente, ma al futuro che in questi mesi irresponsabili si sta costruendo.
Questi mesi in cui le pressioni internazionali hanno costretto il paese a riflettere sulle condizioni della sua economia potevano essere spesi altrimenti: non solo a correggere i conti, ma a preparare un futuro in cui il fisco sia più equo e più severo, in cui le imprese siano sostenute da leggi semplici e non da sussidi a pioggia, e in cui i lavoratori siano tutti uguali mentre oggi milioni di dipendenti sono in una condizione di cittadinanza limitata.
Si è scelto invece di costruire manovre finanziare come liste della spesa, senza alcuna visione d’insieme. Ma il tempo non si ferma, la vita dei lavoratori precari continua anche se di loro non si parla, scegliere di occuparsi in maniera quasi casuale solo di far tornare i conti non è una scelta neutra, al contrario, è una scelta che concorre a determinare il futuro: un futuro con sempre maggiori squilibri, con crescenti tensioni, con una crescita ancora più debole, e in definitiva anche senza quella credibilità internazionale che ha bisogno di un paese coeso e unito.
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