Quando si parla del futuro del lavoro e della tecnologia – e in Italia se ne parla troppo poco – e si esaminano le cosiddette ‘disruption’ di determinati mercati, come i trasporti con Uber, l’hospitality con Airbnb e via discorrendo, in realtà si sottostima un fattore importante.
Molti settori sono già di fatto disrupted nella sostanza, ma restano in piedi o per branding, o per un fenomeno collettivo di ‘silenzio assenso’. Facciamo un esempio su tutti, che è quello della education. Il settore education è già totalmente disrupted.
Oggi su internet l’uomo comune ha a disposizione più informazioni di quante ne abbia avute qualsiasi scienziato nella storia dell’umanità, esistito nei decenni precedenti.
La cosa più sorprendente è che le stesse università più prestigiose al mondo il cui accesso è a volte molto selettivo e costoso, mentre continuano il loro business model hanno anche messo a disposizione gratuitamente molti dei loro corsi su siti come Coursera o EdX.
Aggiungiamo la moltitudine di corsi gratuiti su Kahn Academy, tutti i TedX, i tutorial e corsi su youtube, i milioni di webinar dei vari siti e blog e la grande libreria appena lanciata da Linkedin Learning, che ha acquisito anche la piattaforma Lynda. Insomma, seguendo le normali leggi di macroeconomia, ha senso pagare per un prodotto che è già quasi gratis?
Ora nell’esempio dell’education, se la conoscenza è gratis e quindi il settore è già disrupted, perchè proliferano non solo scuole e istituzioni, ma anche una moltitudine di soggetti singoli online e offline che vendono con successo i loro prodotti informativi, seminari, manuali e corsi anche a prezzi decisamente alti?
Il primo aspetto – come detto – è il silenzio assenso. Ossia in molti settori non è ancora stata rotta la barriera per la quale si considerano l’apprendimento e la conoscenza di skills (apprese online o in qualsivoglia modo) al posto del certificato o del titolo. Dove questo invece è successo è in settori come il marketing online dove il sistema educativo tradizionale è stato lento nel creare programmi al passo con la conoscenza che proliferava sulla rete, e quindi si sono creati ruoli come SEO, social media marketing, affiliate e via discorrendo totalmente autoformatisi online. L’online business è già una giungla dove l’apprendimento avviene per trial and errors, attraverso blog, webinar, con una marea di lavoro freelance a prezzi stracciati, guru nati sulla rete senza educazione formale e via dicendo. Per molti altri settori il ‘silenzio assenso’ è destinato a crollare e aprire le porte a un freelancing selvaggio, una cultura result-oriented, legata al telelavoro e all’autoeducazione. Per certi settori e ruoli è solo questione di tempo.
Il secondo elemento per il quale in un mercato deregolato, sostanzialmente a zero valore aggiunto (l’informazione è disponibile gratis, cosa si può aggiungere se non il riorganizzarla e infiocchettarla?), è ancora possibile farsi pagare e fare business, è il brand. Che si tratti dell’istituzione universitaria che vende il suo brand, o anche dell’esperto marketing del web che si è costruito il traffico sul sito, o la youtube star che ha accumulato milioni di followers, tutti si sono costruiti un personal brand. Che in altre parole altro non è che una comunità di followers. Un gruppo di persone che ti stima e crede a quello che dici e che quindi ha un preciso e calcolabile valore economico, in quanto può comprare da te prodotti (tuoi o di terzi da te raccomandati).
Chiaramente ci sono anche conseguenze pericolose di questa tendenza perchè se un tempo l’esperto era colui che veniva certificato da titoli, istituzioni od esperienze di lungo tempo, oggi lo è chi di fatto viene legittimato dai numeri che si crea online, in breve o in lungo tempo, non importa più di tanto con quali contenuti, e questo vale anche per le campagne politiche. Chi lo ha capito – come ad esempio Trump – ha raccolto dividendi non da poco, come una poltrona alla casa Bianca.
E’ una rivoluzione da un lato meritocratica, per chi si costruisce un pubblico erogando contenuti di qualità, dall’altro pericolosa, per chi solletica gli istinti più bassi e crea numeri importanti nell’online. I più importanti Youtuber ad esempio non parlano certo ai loro milioni di follower di filosofia morale o crescita personale nè stoicismo, ma di videogames, cosmesi, gossip, gattini e altre quisquilie.
Comunque sia la riflessione che ciascuno devere fare, a livello personale o aziendale è che il brand – corporate brand o personal brand – è la chiave per trovare spazio in un mercato disrupted.
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