New York – Il conto alla rovescia verso una nuova crisi del debito è ormai agli sgoccioli per l’Argentina. Se nel nuovo round negoziale oggi e domani a New York con i creditori ribelli non verrà trovato un accordo, Buenos Aires finirà automaticamente in default, per la seconda volta in 13 anni. Un record. Perché la giustizia statunitense, davanti alla quale il caso è stato dibattuto, ha deciso che il governo di Cristina Kirchner potrà effettuare i pagamenti dovuti entro domani notte su titoli ristrutturati del debito sovrano soltanto se pagherà contemporaneamente gli hedge fund che non hanno invece accettato la ristrutturazione, una sentenza finora respinta da Buenos Aires. E, potenzialmente, l’apertura della crisi potrebbe dar vita a un’irrefrenabile valanga di richieste di pagamenti da parte di un esercito di creditori, stimati fino a 29 miliardi di dollari, pari al totale delle obbligazioni che ha emesso in valuta internazionale e in grado di svuotare le casse del Paese di valuta pregiata.
Mentre secondo Standard & Poors l’Argentina è già in default. Lo ha affermato l’agenzia che ha tagliato il rating di Buenos Aires a selective default da CCC-
Le cifre della disputa
Il governo argentino deve versare 539 milioni di dollari in interessi su 13 miliardi di dollari in titoli al 2033 del debito ristrutturato, dopo il default su cento miliardi di obbligazioni in valuta estera dichiarato nel 2001. La scadenza è il 30 luglio, al termine di un periodo di grazia. Buenos Aires ha trasferito in realtà i fondi necessari presso la Bank of New York Mellon, ma questi sono stati congelati dal giudice Thomas Griesa finché non sia stato risolto anche il contenzioso con gli investitori che hanno rifiutato gli accordi di ristrutturazione. Una cordata di hedge fund americani chiede il pagamento integrale di vecchi bond per 1,3 miliardi di dollari, una cifra che sale a 1,5 miliardi con gli interessi.
La saga giudiziaria
I bond argentini denominati in dollari sono soggetti alla giurisdizione americana. Qui il tribunale del giudice Griesa ha dato ragione ai fondi statunitensi, che hanno accusato il governo argentino di violare i suoi obblighi mentre Buenos Aires ha contrattaccato denunciando i fondi come spregiudicati speculatori, o «avvoltoi». Il caso è arrivato nei mesi scorsi fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti che ha confermato la sentenza di Griesa. Le parti sono così tornate davanti al magistrato, che ha ordinato negoziati a oltranza con un mediatore di sua nomina, Daniel Pollack, finora senza esito. Griesa ha tuttavia respinto finora le richieste dell’Argentina di ulteriori rinvii per dare maggior tempo al negoziato.
Chi sono i fondi ribelli
Gli hedge fund che hanno rifiutato l’offerta di concambio dei vecchi titoli in default con nuovi bond, che comportava perdite fino al 70%, sono guidati da NML Capital, una controllata di Elliott Management di Paul Singer, miliardario specializzato negli investimenti in distressed debt, obbligazioni in crisi. Singer e i suoi alleati hanno indicato di volere pagamenti integrali ma di essere disposti ad accettare una formula con un mix composto di contanti e nuovi titoli. Il concambio dei bond argentini era avvenuto in due fasi, nel 2005 e nel 2010, accettato da oltre il 90% dei creditori con il 7% di dissidenti.
La posta in gioco in un default
Un nuovo default, il secondo in 13 anni, potrebbe avere ripercussioni difficili da valutare. Congelamento di pagamenti e default dovrebbero riguardare soltanto i titoli denominati in dollari e non quelli in euro, fuori dalla giurisdizione statunitense. Ma la spirale di crisi di fiducia e di accesso ai mercati internazionali che questo potrebbe provocare minaccia tuttavia di scatenare una recessione e gravi travagli finanziari all’Argentina, ai suoi mercati e ai suoi investitori, nonché contagi su altre piazze emergenti. Secondo stime di Bloomberg, infatti, il default potenzialmente consentirebbe ad un ampio ventaglio di creditori di battere cassa per 29 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta il totale dei bond in valuta internazionale e equivalente alle intere riserve in valuta estera del Paese. Questo avverrebbe a causa di clausole di cross-default swap: l’Argentina di fronte a un default dovrebbe ripagare completamente, interessi compresi, qualunque debito qualora i detentori di almeno il 25% di quel titolo lo richiedessero. Una prospettiva preoccupante, che solleva lo spettro di un collasso facilmente fuori controllo. Anche se alcuni analisti invece ridimensionano gli allarmi, ricordando che le dimensioni del default sarebbe nettamente inferiori rispetto al 2001 e che l’economia argentina è in condizioni migliori di allora e il suo governo potrebbe ottenere dai mercati il tempo di trovare soluzioni dopo un iniziale default. Nuove crisi economiche potrebbero tuttavia avere anche conseguenze politiche: il Wall Street Journal ha denunciato nell’edizione odierna che il presidente Kirchner è oggi sfiorato da uno scandalo finanziario che coinvolge un grande costruttore locale suo alleato.
I rischi di un accordo a favore degli hedge
Anche un eventuale accordo più generoso prima del 2015 con i fondi ribelli potrebbe tuttavia aprire un ventaglio di incertezze: Buenos Aires teme che consenta a chi ha già accettato la ristrutturazione del debito negli anni scorsi di rescindere i patti e chiedere in tribunale nuovi termini. L’applicazione di una norma chiamata Rufo, Rights Upon Future Offers, secondo Buenos Aires potrebbe esporre il Paese a richieste che andrebbero da 19 fino a 120 miliardi. I fondi replicano che non è così, perché simili ricorsi sarebbero possibili solo in caso di un accordo volontario sul debito, mentre in questo caso è stato il giudice a ordinare il versamento forzato.
Da Il Sole 24 Ore