Occorre affrettarsi per poter ammirare a Forlì la mostra che raduna gran parte dell’opera affascinante del milanese Adolf Wildt (1868-1931), un protagonista della scultura italiana del Novecento, osannato in vita, poi dimenticato e vituperato nel secondo dopoguerra e infine riabilitato, a partire dagli anni Ottanta, grazie soprattutto agli studi di Paola Mola che, insieme a Fernando Mazzocca, ha curato l’odierna esposizione romagnola. (Fino al 17 giugno)Figlio di un portiere del Municipio di Milano, a nove anni garzone di parrucchiere, a venti finitore di marmi, Wildt morì sessantatreenne, al culmine della fama, dopo essere diventato Accademico d’Italia e celebre come Gabriele D’Annunzio che fu suo collezionista. Per la formazione di Wildt fu determinante l’esclusivo rapporto di lavoro per ben 18 anni, dal 1894 al 1912, con il mecenate Franz Rose che gli consentì di avvicinarsi al mondo delle Secessioni tedesche e in particolare a Gustave Klimt che rimase un punto fisso per la sua ispirazione.
La seconda guerra mondiale ha distrutto tutte le sculture eseguite per la residenza prussiana del mecenate, il castello di Dohlau, ad eccezione di alcune copie dall’antico, esposte in mostra. La presentazione nel 1918 del Maria, Coeli Porta, alla mostra di Brera, aprì a Wildt il consenso dei collezionisti e della critica.
Fu però Margherita Sarfatti (1880-1961), intellettuale, giornalista, corrispondente del “Popolo d’Italia” e promotrice del gruppo del Novecento, la leva della sua Fortuna nella cultura del Fascismo. Le opere più celebri e discusse di Wildt sono i ritratti dedicati a Mussolini, eseguiti a partire dal 1923, quando non era ancora duce, destinati ai luoghi pubblici, dalle Case del Fascio, al Campidoglio, alle Università e riprodotte in moltissimi libri, da quelli scolastici a quelli di propaganda. Ma non è per questo che oggi questo scultore ci appare geniale.
La sua grandezza sta nell’abilità di trattare il marmo, che racconta i grandi temi della vita e della morte, e nella capacità di restituire il carattere dei personaggi, alternando toni estremamente dolci e graziosi (Augusto Solari, 1918, Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale), a modi aspri e tragici (Il Prigione, collezione privata). Lavorando il marmo come Michelangelo, per lo più direttamente senza modelli in gesso, con strumenti da lui stesso inventati, riuscì ad assottigliarlo, forarlo e lucidarlo, trasformandolo in qualcosa di profondamente diverso, più simile all’avorio o alla porcellana, fin quasi a smaterializzarlo.
La genialità dello scultore sta anche nella sua interpretazione sempre originale dell’arte del passato: dalle fonti classiche a quelle gotiche, dal Rinascimento al Manierismo, dal barocco di Gian Lorenzo Bernini al neoclassicismo di Antonio Canova. La mostra ha il merito di esporre anche le opere degli artisti dai quali Wildt ha preso e ha dato.
Si segnala dunque la presenza di dipinti e sculture del suo amato passato, ma anche quella degli artisti contemporanei, come Klimt, Felice Casorati, Giorgio de’ Chirico, con i quali si è confrontato, e perfino quella degli allievi da lui prediletti: Lucio Fontana e Fausto Melotti, conosciuti, nei suoi ultimi anni, quando insegnava scultura a Brera dove aveva ottenuto la cattedra, senza alcun concorso, per ‘chiara fama’.
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