Una buona vita si giudica in intensità o in estensione?

Qualche filosofo latino diceva che per giudicare se una vita fosse buona, occorreva attenderne la fine e valutarla nella sua interezza. Qualcun altro scriveva che la cosa migliore nella vita era una buona morte, magari nel sonno, senza angosce e sofferenze prolungate.

Ero in ferie in una spiaggia delle Filippine quando ho appreso la notizia della tragica morte di Kobe Bryant, la figlia Gianna e altri sette passeggeri dell’elicottero che viaggiavano con il campione di basket. Non sono solito seguire i media e le ondate emotive, ma la notizia mi ha scosso e incupito. Il legame di Bryant con la nostra nazione e ancor più la nostra città era innegabile e palpabile, negli aneddoti della gente che lo aveva conosciuto, nelle occasionali interviste in italiano. Seppure la sua presenza in città non fosse così frequente; Kobe però in qualche modo c’era sempre, anche dalla sua Los Angeles lo percepivamo più vicino di qualsiasi altro cestista americano.

Kobe Bryant ha vissuto esperienze che nessuno di noi potrà nemmeno lontanamente assaporare: vincere cinque anelli NBA nella Mecca del basket dello Staple Center, dopo essere partito con i primi passi su un parquet della provincia italiana. Ha avuto dalla vita in dono tutto, una splendida famiglia, milioni a palate, persino un Oscar! Cose che a priori chiunque di noi avrebbe ritenuto impossibile, anche nella più pazza sceneggiatura hollywoodiana.

E allora mi sono domandato: una buona vita si giudica in intensità o estensione? O forse tutte due?

Perché l’intensità della vita di Bryant è stata un po’ come quella dei suoi allenamenti: senza eguali. Ma se la analizziamo in estensione, resta un drammatico vuoto, la sensazione di tutta una seconda fase che Kobe era pronto a vivere e assaporare, strappatagli come un copione da Oscar, appunto, fatto a brandelli prima della produzione. Già, perché Kobe – a differenza di tanti atleti che invecchiano male, incattiviti, rovinati tra alcol e gioco d’azzardo – appariva davvero pronto a questo nuovo ruolo di attore (meno) protagonista. Eccitato all’idea di conquistare nuovi Oscar nel ruolo di padre, di imprenditore, ad aiutare con la sua Academy tanti ragazzi, trasmettendo loro quella passione per il basket che è stata il solo e indistruttibile filo conduttore della sua vita, e ahimè, anche della sua morte, visto che quell’elicottero serviva proprio ad accompagnare la figlia a una partita di pallacanestro.

E allora perchè non gli è stato concesso di interpretare questo ruolo? Di completare un copione che sembrava cucito addosso a lui tanto quanto la canotta numero 24 dei Los Angeles Lakers?

La vita di Kobe è stata intensissima ancor più perchè stroncata dalla morte prima di poter in qualsiasi senso appassire, visto che non vi è stato tempo di lasciare decantare – come il vino di pregio – anche i ricordi, le vittorie, il vederlo invecchiare e passare il tempo prima su di una sedia di studio televisivo a commentare le nuove generazioni di cestisti, poi su un divano a raccontare delle sue imprese passate ai nipoti, con quella narrazione che era un altro dei suoi numerosi talenti.

E sempre se misuriamo la qualità della vita in intensità, quanto pesano sulla bilancia gli ultimi tragici momenti prima dello schianto? Mi sono domandato tante volte se il destino abbia almeno voluto dare a Bryant l’inconsapevolezza di uno schianto improvviso, o se lo abbia costretto ad una manciata di drammatici secondi in cui rendersi conto che non solo stava lasciando vedova una moglie e due figlie, ma stava perdendo lì fra le sue braccia la figlia Gianna, senza nemmeno il tempo di trasmetterle tutto ciò che avrebbe voluto in parole. Pochi secondi in estensione certo, ma un dolore tale – in intensità- da lacerare un’infinità di esistenze per l’eternità.

E allora non so più dire se Bryant sia stato un uomo fortunato, per aver vissuto ciò che ha potuto vivere, o molto sfortunato.

So solo che per vivere una vita così intensa, seppure breve, non ha perso tempo. Non credo abbia perso tempo in inutili discussioni sui social media, su Sanremo, giocando ai videogame o altre quisquiglie. Credo che ogni secondo lo abbia speso sudando sul parquet con la palla a spicchi oppure insieme alla famiglia, o lavorando alla Mamba Academy per infondere anche ad altri la sua stessa passione. In una vita così breve e di successo, non c’è stato spazio per molto altro. E allora, al di là di quelli che certamente saranno stati anche suoi difetti e imperfezioni, questo è ciò che in fondo tutti possiamo amare e portarci dentro della sua “mamba mentality”.

Mamba Mentality per ciascuno di noi può voler dire interrompere una sterile polemica politica su facebook per rimetterci a fare il nostro lavoro con maggiore impegno, per dedicare uno sguardo o una telefonata in più a chi amiamo o un amico che non sentiamo da tempo, studiare e apprendere una cosa nuova, o donare cinque euro anche quando abbiamo pochi soldi.

Mamba mentality è in fondo fare qualcosa di migliore in questo solo istante. E forse questa è proprio la soluzione del paradosso fra intensità ed estensione. Perchè alla fine questo istante, soltanto questo, è tutto ciò che abbiamo.

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