The last dance. La leggenda di Michael Jordan

A tenerci compagnia nella quarantena priva di eventi sportivi è stato il documentario di Netflix “The Last Dance” su Michael Jordan e i Chicago Bulls degli anni novanta, un meritato successo di audience per una straordinaria regia di Jason Hehir.

Ma “The Last Dance” è molto più di un semplice documentario. Parto dalla fine, per definirlo prima di tutto un grande esercizio di elaborazione collettiva del lutto. Già, perchè tra quelle fiamme in cui Phil Jackson chiese alla squadra di bruciare i ricordi di quegli anni straordinari prima di separarsi, seguendo appunto un rituale fatto nei gruppi di aiuto di chi ha perso qualcuno caro, abbiamo dovuto buttare dentro anche i nostri.

Per noi che siamo già abbastanza vecchi da aver vissuto anche almeno una parte della parabola straordinaria di quei Chicago Bulls, che erano Star ancor prima di Instagram e Twitter, che erano prodotto di esportazione globale prima ancora che nella mia città, Reggio Emilia, aprisse il primo McDonald, dicevo, per noi questa serie è stata una catarsi necessaria.


Abbiamo scoperto, come Richard Gere nel film “L’angolo rosso”, il quale perde una persona cara e si tuffa nel lavoro la sera stessa, senza fermarsi per anni e anni pur di dimenticarla, senza mai prendersi un momento per elaborare – ed affrontare – i ricordi, che anche noi avevamo bisogno di fermarci ed elaborare quegli anni.

Michael Jordan è stato così grande, così chiaramente dominante da essere considerato il più grande di tutti i tempi con un consenso che in nessun altro sport è così ampio e supportato da statistiche che lasciano pochissimi dubbi a chi sa leggerle. Ma è stato sportivamente così immenso, insieme a quella leggendaria squadra di Chicago con cui vinse sei titoli, che una impresa così straordinaria in tempo reale non la si vive mai abbastanza appieno: troppo grande l’impresa, troppo fugace il momento.

E così si faceva appena in tempo a celebrare una vittoria in finale con i Lakers che eccone arrivare un’altra l’anno dopo con Portland, e poi ancora. E non si finiva di riprendersi per lo shock di un ritiro mai concepibile, che Michael faceva un ritorno fragoroso fra dubbi e clamore mondiale e portava i Bulls per altri tre anni nell’Olimpo del basket.

E allora serviva proprio, a distanza di vent’anni da quelle imprese, un momento di pausa collettiva per chiudere il cerchio, per una celebrazione mondiale di quella che fu una squadra, un’epoca irripetibile, con un documentario che è tanto bello quanto alla fine catartico per chi quell’ultimo canestro di Jordan l’ha ancora impresso nella mente, a tarda notte, sveglio a guardare il vecchio canale Telemontecarlo.

Ma quella nostalgia, quella catarsi si estende ad una intera epoca: gli anni novanta. I Chicago Bulls e Michael Jordan più di ogni altra cosa sono il simbolo di quegli anni, un’icona mondiale in grado di trascinare marchi come Nike o Gatorade fra i ragazzi di tutto il mondo, e di fare da ambasciatore di quel modello di vita americano, nel bene e nel male, che poi penetrò sempre più anche la nostra nazione. Erano gli anni del mitico Dream Team, un’anomalia storica dove tre generazioni di fenomeni si intersecarono per un’olimpiade, ma i ricordi presto corrono a Ryu di Street Fighter, al Nintendo, ai mondiali di USA ’94 e quel rigore di Baggio, ai primi telefonini Nokia e le giornate all’aria aperta e ad anni di boom economico in Occidente e una sensazione di benessere diffuso.

In fondo i Chicago Bulls e MJ ci riportano alla mente un mondo che era molto più semplice, ma con l’impressione di costante ascesa, pieno di sogni e speranze, per una società – quella occidentale – che pareva al suo apice. Ci ricorda la parte ascendente della curva, il tendere a traguardi migliori, proprio come Jordan, ci ricorda il piacere di vedere nuovi oggetti colmi di stupore e quasi magia come i primi videogiochi e telefonini, prima che arrivassimo a una nausea consumista intrisa di senso di ripetizione robotica. E allora Jordan ricorda a chi ha potuto viverla, la nostra gioventù, la forza, il dare il meglio, quando anche noi in quanto Occidente, forse siamo stati al nostro meglio. Ma ci rammenta anche che tutto passa e ogni ricordo alla fine va bruciato nel fuoco; The Last Dance ci ha accompagnato per un mese e in ultima analisi ci ha aiutato a fare proprio questo.

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