Tennis, Djokovic batte Federer e conquista il suo secondo Us Open – Enrico Sisti

download NEW YORK  –  Djokovic senza parole, Djokovic contro tutti. Per conquistare il suo 10° titolo Slam, in una partita di tennis che speriamo abbia fatto innamorare di questo sport gli insonni e gli increduli, gli amanti di solo calcio, i distratti e i figli dei distratti, i neofiti e quelli che hanno sempre creduto che il tennis fosse uno sport aristocratico da circolo, il ragazzo serbo ha dovuto superare le montagne arrampicandosi con le mani, facendo finta di non sentire, immaginando di essere solo al mondo (e in un certo senso per tre ore abbondanti lo è stato). C’era Federer dall’altra parte, e già questo comportava dei problemi, c’era il pubblico schierato come forse mai s’era visto su un campo da tennis, a parte certi episodi in Coppa Davis (e solo in qualche paese votato al casino, non in tutti) Si sa che Federer è adorato, che ha gente dalla sua parte in qualunque anfratto si allestisca un torneo, un esercito di appassionati altamente promiscuo e trans-generazionale, se la Svizzera giocasse la Coppa Davis su Marte Federer trovebbe fan club di marziani con le magliette preparate il giorno prima, le frasi scritte sulle guance, gli striscioni in lunga terrestre e la frase che da anni rimbalza come le palline gialle: “Silenzio, il genio è al lavoro”. Ma sul centrale di Flushing Meadows sono andati oltre, non era tifo, era disturbo fazioso, gridolini fra la prima e la seconda di servizio, imbarazzanti urla alle prime palle che terminavano a rete. Oltre il pubblico, c’è stato un fantastico spettacolo di intensità, è stato un “brain game”, una partita di scacchi giocata tirandosi gli scacchi addosso. E’ stato spettacolo anche nell’arbitraggio di una donna, la splendida greca Asderaki, padrona della situazione almeno quanto i protagonisti in campo.

La finale maschile dello Us Open l’hanno disputata i due migliori, quindi un migliore doveva vincere. Si sfidavano due perfezioni: l’animalesca perfezione di Djokovic, che è flessuoso come una creatura della foresta, è solido come un crostone di roccia e ha colpi da fenomeno da fondo campo, e la perfezione apollinea di Federer, con tutto il suo coté di magie eseguite alla velocità del suono. Si scontravano due concezioni: la difesa e l’attacco. Ha vinto Djokovic per molte ragioni. La prima è che Nole è l’unico in grado di cimentarsi ai ritmi attuali di Federer, restituendo palle ancora più veloci e spostando il “core” dell’incontro su scambi prolungati, dove la velocità diventa per Federer un eccessivo dispendio di energie, non è lui a imporla, è lui a subirla. Federer vince in tre set (lo ha fatto contro Djokovic anche a Cincinnati recentemente), ma in quattro o in cinque il serbo prevale (come anche a Wimbledon): è più resistente e soprattutto è capace di rimanere calmo e al tempo stesso determinante anche sotto pressioni inaudite come quelle che pesavano come un drappo nero sulla partita del serbo nel catino dell’Arthur Ashe, con i 23 mila a tifargli contro. La seconda spiegazione è che Federer, soprattutto contro Djokovic, non può permettersi (nemmeno lui) di sprecare 18 palle break. Ogni volta che Federer è andato in vantaggio sul servizio di Nole ci si chiedeva: “Vediamo adesso che s’inventa per buttare anche quest’occasione”. Troppo.

Agevolato forse dal ritardo dovuto alla pioggia che ha fatto diventare l’incontro “notturno” (con il fresco le condizioni sono diverse, i campi sono più lenti e la palla penetra meno nell’aria), Djokovic è stato meraviglioso, cinico, geniale. Un esempio di forza e di dinamismo psicologico: ad ogni crisi momentanea ha risposto con una spinta uguale e contraria, ribaltando la situazione in pochi punti. Federer aveva iniziato male, il primo set l’ha giocato senza prime palle di servizio e a Djokovic è stato sufficiente fare il break nel settimo gioco (prima si era anche sbucciato gomito, mano e gamba cadendo sul duro cemento). Però in realtà tutto andava nella sua direzione, soprattutto la lunghezza degli scambi, che Federer cercava di evitare. Lo svizzero tornava poetico nel secondo, salendo di ritmo, cercando l’aggressività, tentava il “sabr”, lo sneaky attack by roger, un paio di volte Djokovic lo respingeva con dei pallonetti, ma comunque Federer era più sciolto, sicuro, sbagliava molto meno. Il decimo gioco del secondo set è “dantesco”, dura sedici minuti, una battaglia a carne viva, il pubblico impazzito dà il peggio di sé e costringe Djokovic a ridere del suo comportamento. Il serbo però si salva. Federer vince il set strappando il servizio a Djokovic nel 12° gioco: 7-5. Ora inizia un’altra partita, al meglio dei tre set. Ma Djokovic va subito avanti di un break (esattamente come a Wimbledon!): 2-1. Qui però Federer recupera subito. Sale anche un po’ di vento.

E’ all’ottavo gioco che Federer si gioca gran parte della partita non  sfruttando clamorose palle break. Sono gli unici momenti in cui sembra che Djokovic sia un po’ sulle gambe, che balli sull’orlo del vulcano. Ma dura pochissimo. Proprio quando appare per la prima volta in difficoltà, leggermente in balìa di Federer, Djokovic rimette il naso avanti con un break sanguinoso (per Federer): sale 5-4 e poi 6-4. Il quarto set comincia con Djokovic “on fire”: subito un break. Sotto di 2-0 Federer tira fuori tutto: mette in mostra l’intero repertorio ma con una vago senso di disperazione (spesso è passato a rete). Sul 5-2 per Djokovic pare finita e invece no: il colpo di coda

porta Federer sul 4-5. Ma non basta. Campioni. Sostanza. Bellezza. Forza. Coraggio. Ma Djokovic è un muro su cui è stato dipinto un affresco. Federer si è mostrato nella sua modalità standard per troppo poco tempo. Con Djokovic, che ha polmoni grandi così, cuore grande così, anima grande così e una carattere forgiato dalla sofferenza della sua infanzia sotto le bombe, non può permetterselo nessuno. Nemmeno i poeti del tennis.
Da: Repubblica Sport

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