E’ stato un anno di sport per me particolarmente amaro, perché prescindendo dal tifo, il 2014 avrebbe potuto consegnare alla storia favole e leggende, (con l’eccezione di Nibali, fresco di trionfo parigino) per il resto ha finito per essere un anno ‘banale’, dominato in fondo dalla legge del più forte.
In particolare, sono tre le grandi storie mancate su cui vorrei soffermarmi.
La prima, più favola che leggenda, sarebbe stata quella dell’Atletico Madrid di Simeone, nel calcio. La squadra, dopo aver trionfato in una edizione mozzafiato della Liga, all’ultima giornata contro il Barcellona (quante volte capita di giocarsi lo scudetto in uno scontro diretto all’ultima di campionato?), si è ritrovato in finale di Champions League contro i cugini del Real Madrid. Prima storica finale di Coppa fra due squadre della stessa città. Da un lato la squadra più titolata, spendacciona e, diciamolo pure, arrogante della storia della competizione. Una squadra costellata di stelle, da Cristiano Ronaldo a Di Maria, Benzema ecc. Il solo colpo dell’estate, Gareth Bale, da oltre 100 milioni di euro, è costato circa come l’intera squadra dell’Atletico Madrid, che invece schierava scarti del campionato italiano, cacciati a pedate dalla Juventus come Thiago o Diego, o scarti del Barcellona svenduti l’estate precedente come Villa. Ed ecco il miracolo di Simeone, che ha creato la versione aggiornata del tiki-taka di Guardiola per portare questa compagine lì a giocarsela contro gli dei del calcio, guidati da Ancelotti, che a dire la verità ha vinto sempre solo quando ha allenato la squadra più forte: il Milan e il Real in coppa, il Chelsea ed il PSG in campionato.
Sarebbe stata davvero una bella favola, il Real dei divi, che ha speso centinaia di milioni, ormai miliardi negli ultimi anni, per agguantare quella decima coppa, punito dai cugini poveri, tutti gioco di squadra e sacrificio. E invece…
La seconda storia, più leggenda che favola, sarebbe stata quella del tennista Roger Federer, che alla non più verdissima età di 32 anni ha avuto l’occasione di aggiungere un ennesimo record alla sua carriera, divenendo l’unico giocatore della storia a vincere il torneo di Wimbledon per 7 volte: avrebbe potuto farlo superando Novak Djokovic, all’anagrafe 26 anni. E’ stata una finale epica, ma sul muro dell’England Club alla fine è stato inciso il nome del serbo.
La terza storia sarebbe stata tanto leggenda quanto favola. Ed era la finale dei Mondiali, Germania-Argentina. Leggenda soprattutto per Lionel Messi. Perché se colui che ha segnato 243 goal con il club e 42 con la nazionale, vinto 4 palloni d’oro, 3 Champions League, un’olimpiade, 6 campionati e numerosi altri trofei a soli 27 anni, avesse vinto anche il Mondiale, sarebbe entrato di diritto nell’olimpo dei grandi, non del solo del calcio, dove sta già, checchè ne dicano gli invidiosi dell’ultima ora, ma dello sport in generale, accanto ai Michael Jordan, gli Schumacher etc. Un mondo a parte dove stanno le leggende, una spanna sopra anche ai campionissimi. E poi sarebbe stata anche una favola perché Argentina e Germania rappresentavano le due facce della medaglia della globalizzazione: i tedeschi, economia galoppante, tra i pochi ad aver beneficiato dell’Euro e che dettano legge all’Europa intera, gli argentini che hanno sperimentato per primi la bancarotta fino a diventare il “case-study” per eccellenza e lo spauracchio di ogni economia capitalista, e le cose non è che oggi gli vadano meglio. Insomma, una vittoria argentina, anche per i corsi e ricorsi storici, il parallelismo Messi-Maradona, avrebbe avuto più valore “letterario”, che la vittoria dell’organizzazione e precisione teutonica, frutto di un sistema e priva di veri personaggi, pianificata nel tempo, quasi poco “umana”.
Ciò che di queste tre mancate storie lascia più l’amaro in bocca però è il modo in cui sono maturate. Perché in tutti e tre i casi era Davide contro Golia, c’era un chiaro squilibrio di forze e quindi l’Atletico, l’Argentina e Federer avrebbero potuto tutti e tre semplicemente uscirne a pezzi. E invece no, le cose erano sembrate davvero incanalarsi nel modo ideale. L’Atletico, che aveva perso tre dei suoi uomini chiave alla vigilia della finale e si presentava da vittima sacrificale, aveva beneficiato di un errore del portiere del Real, per portarsi in vantaggio e aveva difeso quel vantaggio fino all’ultimo minuto del generoso recupero accordato dall’arbitro. E poi un corner, un goal di testa, il pareggio del Real all’ultimo respiro e il tracollo nei supplementari.
Federer stava per uscire triturato al quarto set, e poi Djokovic si è inceppato, lo Svizzero è salito in cattedra per una rimonta clamorosa che ha trascinato la partita al quinto, dove il campione di Basilea ha pure avuto, sulla scia del momento, un break point. E invece ecco che il serbo si è ricomposto e ha terminato l’opera, 6-4 al quinto.
La finale Mondiale poteva avere un esito diverso. La Germania era l’ombra della squadra che ha rifilato sette goal al Brasile, l’Argentina ha potuto impostare la partita che voleva, difesa e ripartenze. Eppure ha fallito tre ghiotte occasioni. Inevitabile pensare che se Messi avesse insaccato un diagonale per lui ordinario, ora si ritroverebbe a leggere elogi sperticati al posto delle assurde critiche e attenderebbe in pantofole il quinto pallone d’oro da mettere in salotto, mentre un’intera nazione sarebbe in festa, al di là di ogni problema, stento e nube sul futuro. E invece il destino è labile almeno quanto le opinioni degli uomini: un minuto prima, un centimetro più a sinistra, sei un mito, e quello dopo sei un fallito.
Tre storie composte di piccoli miracoli e sudore sospinti fino all’atto finale, quasi come in un disegno, ma sfumate proprio sul più bello. E alla fine quel che resta è solo la voglia di guardare il cielo e chiedere: ehi Mister, ti costava tanto un piccolo soffio in più?
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