Un raggio di sole risveglia il mattino.
Una luce che entra improvvisa su questi giorni sempre uguali. Mi è rimasto poco della
vita e guardare indietro e pensare al passato mi fa solo male. Anche oggi sono stato dal
medico. Domande su domande. Soprattutto domande che non comprendo. Fa parte
dei doveri di questa nuova esistenza. Il medico è un brav’uomo, si comporta come fosse
mio amico.
Ma io non ho amici. Non ne ho mai avuti.
Passa un’ora intera a dire di rilassarmi e di ricordare. Poi tira fuori da un cassetto degli
strani disegni. Macchie di colore dalle forme orribili. Io dico che mi ricordano dei mostri
senza testa. Lui non pare contento. Poi mi fa tante domande e io non so rispondere.
Riesco solo a dire che amavo mia madre come l’unica certezza della mia vita, come è
vero che odiavo mio padre, con tutto il cuore. Mi fa ripensare a tutte le volte che l’ho
vista soffrire, perché lui la picchiava, segnandole il corpo con lividi scuri. Era terribile
dopo che aveva bevuto.
Adesso so che non accadrà più.
“Dottore, – dico ad un tratto – rammenti le carezze di tuo padre?” Il dottore non
risponde. Dice che le domande le fa lui.
E continua. A quel punto non rispondo più neppure io. Perché quando si parla lo si fa in
due e io non accetto nessun fottutissimo interrogatorio. Mi irrigidisco in un mutismo
totale, fino a che non mi riportano nella mia stanza.
Quando rientro e il maledetto secondino chiude la porta con il catenaccio, mi rendo
conto di nuovo che la mia stanza è solo una prigione. Non uscirò mai di qui, sinchè vivo.
E non sono pentito di niente. Come non sono pazzo, anche se mi trattano come se lo
fossi. Sono stato solamente giusto. E nessuno comprende. Nessuno può comprendere.
Distendo il mio corpo stanco sulla brandina, che da tempo è il mio letto. In una
stanzetta di pochi metri quadri hanno racchiuso la mia vita e tutto quello che serve per
consumarla.
Un tavolaccio di legno, due sedie e un bagno molto essenziale. Uno spaccato di finestra
fa intuire i raggi del sole.
Ogni tanto mi portano in cortile, a prendere un po’ d’aria. Lo faccio di mala voglia,
perché vedo sguardi di odio negli occhi degli altri. Tutti mi evitano. Una volta hanno
persino tentato di uccidermi. Per fortuna sono intervenuti i secondini e mi hanno
liberato dalla stretta di uno che mi stava soffocando. E’ accaduto nel bagno del cortile.
Mi ha preso alla sprovvista mentre mi stavo tirando su i pantaloni. Mi ha bloccato alle
spalle e ha stretto forte la gola. Sono arrivati in tempo.
Lo hanno portato via che gridava: “Lasciatemi. Lo voglio ammazzare quel frocio
assassino”.
Chi mi ha salvato non ha detto una parola.
Lo ha solo portato via.
Un altro secondino mi ha detto: “Tanto prima o poi ti fanno la pelle, stronzo. Quelli
come te non piacciono a nessuno”.
Per questo esco poco e sono sempre più solo.
E quando sono solo penso.
Penso che in fondo sono sempre stato solo.
A parte mia madre. Lei mi ha voluto bene, come io gliene ho voluto, fino al giorno in cui
siamo stati insieme.
Ricordo quando mi leggeva storie nelle lunghe sere d’inverno, o quando mi aggiustava il
vestito prima di uscire, pettinandomi i capelli con la brillantina e mi raccomandava di
non fare tardi. Io tornavo presto e lei lo sapeva che non disubbidivo mai. E poi non
avevo amici e preferivo stare in casa a guardare la tivù o a farmi raccontare storie.
Avevo quindici anni quando mi accorsi di tutto e lo confessai. Solo a lei, però. Perché
sapevo che soltanto lei avrebbe capito. Forse già lo sospettava, perché da buona
mamma sapeva in anticipo ciò che mi passava per la testa.
Non dico che ne fu contenta, questo no.
Però comprese.
“Non lo dire a tuo padre” mi disse.
Io non lo avrei mai fatto, anche perché con mio padre non ho mai parlato. Lui sapeva
ragionare solo con le mani e i discorsi più importanti li affrontava con una cinghia di
cuoio nero, che ha lasciato a lungo ricordi bluastri sulla mia carne. Però lo venne a
sapere ugualmente e non la prese bene. Quel giorno mi massacrò di botte e andai a
scuola segnato da lividi e sangue. Maledetto. Maledetto bastardo. Mi disse che ero la
sua disgrazia peggiore dal giorno in cui ero nato. Mi disse che lui un figlio non lo
avrebbe mai voluto e che ero stato solo un maledetto errore. Mi gridò in faccia che
avrebbe preferito che morissi, piuttosto di sopportare la vergogna di avere un figlio
frocio. Adesso che le ha pagate tutte dovrei essere pentito. O almeno l’avvocato dice
che mi converrebbe. Non sono pentito, anche se non uscirò mai più da questa cella
bianca che ha catturato i miei diciassette anni in un giorno di ottobre. Mi dispiace solo
per mia madre, perché ho dovuto colpire anche lei. Gridava come una forsennata,
quando l’ho fatto a pezzi. Diceva che ero un assassino e che avrebbe chiamato la
polizia.
“Ma io l’ho fatto anche per te, mamma – le dicevo – adesso siamo liberi”.
Lei non capiva e ho dovuto usare di nuovo il coltello. Non c’era altra scelta. Povera
mamma. Lei mi aveva sempre capito e protetto. Adesso sono solo davvero. Però ho
messo le cose a posto. E lo rifarei, dottore. Sì che lo rifarei. Non sono pentito.
Mia madre viene a trovarmi ogni notte in questa cella. Ed è più bella che mai. E mi vuol
più bene che mai. Adesso mi ha detto che ha compreso ed è contenta che l’abbia
liberata. Finalmente può abbracciarmi forte e tenermi stretto al suo cuore, senza
temere le botte di mio padre. Come sempre è la mia unica amica.
La sola a capirmi. Domani glielo dirò a quel maledetto dottore. Domani glielo dirò che
sono contento di averlo ammazzato, trafiggendolo al cuore e poi sezionandolo con cura
con il coltello grande da cucina. Sono dispiaciuto soltanto di non aver nascosto per
tempo i pezzi. Sono pentito solo di aver dovuto colpire mia madre.
Lei mi ha perdonato però.
Questa è l’unica cosa che conta.
La vedo ogni notte e conservo la sua foto sul comodino in una cornice dorata. Mi parla
e lo fa con dolcezza. Lei sola sa essere carina con me. Ha sempre saputo farlo.
“Piccolo mio, no che non sei un assassino. – Mi dice – Sei solo un bambino che ha
bisogno d’affetto”.
“Se non ci fossi tu, mamma, preferirei morire” rispondo.
Poi mi addormento e la sogno.
L’unica donna della mia vita.
La sogno come la ricordo.
In cucina tra i piatti da lavare, o seduta alla macchina per cucire, mentre mi taglia i
pantaloni per i giorni di festa. Le chiedo se mi vuole sempre bene, nonostante tutto.
Non sono pazzo, caro dottore. E cosa importa se vedo i mostri nelle macchie di colore.
Non sono pazzo, lo ha detto anche mia madre. Sono solo un bambino che ha bisogno di
affetto. Adesso più che mai. La sua mano mi carezza la fronte. Dita scarne e affusolate
pettinano i miei capelli con amore.
“Se non ci fossi tu, mamma…” mormoro nel sonno.
E mi pare di sentirla la sua voce, nel silenzio innaturale della mia cella. E’ un soffio
leggero di vento che viene dal passato.
“Io ci sarò sempre” mi dice.
Solo che il dottore non lo vuol capire. Non crede alle mie parole. E continua a
tormentarmi con assurde domande. Dice che ho fatto una cosa terribile e non mi
comprende. Io ne ho abbastanza di non essere capito. Voglio restare solo tra le braccia
di mia madre. Come una volta. Come quando ero bambino. E lei di nascosto a
raccontarmi una storia, facendo piano, per non svegliare mio padre. Adesso può farlo
tranquilla. Lui non c’è più a dare ordini e ad alzare le mani.
Nessuno deve più dirmi cosa devo fare.
Neppure quel maledetto dottore.
Perché se solo ci prova gliela farò vedere.
Non ho dimenticato come si usa un coltello.
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