Di Marcello Veneziani
Tu la ricordi giovane e splendida attraverso il mito, cioè il cinema e la fotografia. Poi la vedi dal vivo con i capelli blu elettrico, il corpo e il volto di una signora in viaggio verso gli 80 anni. Non è invecchiata male Lucia Bosè. Non soffre la sindrome di Alain Delon o di Brigitte Bardot, della bellezza appassita che patisce e si dimena perché mangiata dalla vecchiaia. Lei scherza, allegra e vitale, vuole vivere a lungo, anche per godersi – lei dice – lo spettacolo di suo figlio Miguel vecchio col bastone. Quando lui avrà l’età mia ed io oltre cent’anni, mi divertirò a vederlo vecchio…
Pranzammo una volta col Mito proprio nel suo luogo fatale, il Grand Hotel des Illes Borromees di Stresa che la incoronò Miss Italia nel lontano ’47: dopo di lei arrivò Gina Lollobrigida, fu eliminata Eleonora Rossi Drago, fu addirittura scartata Silvana Mangano. E l’anno dopo vinse Sofia Loren. In giuria c’erano Totò, Isa Barzizza, Walter Chiari, che diventò suo amico. Il premio era sponsorizzato da Visconti di Modrone, il conte Borromeo, la Carlo Erba. Centomila lire per un sorriso, Lucia Bosè recita con civetteria di ragazza lo slogan d’epoca e accenna un sorriso troppo splendido per essere ancora vero. Gran cifra 100mila lire dopo la guerra. Lucia Bosè non era più tornata in quel luogo magico dove cambiò la sua vita a soli sedici anni. Prova emozione, ci disse quel giorno, ma forse non era vero, non è quello che provava. È rimasto tutto uguale, dice: sarà stato vero, ma pare un esorcismo rituale per convalidare come inalterate anche la sua memoria, la sua bellezza e la gloria di quei giorni. Prima della sua elezione a Miss Italia Lucia Bosè faceva la commessa in un negozio di marron glacés a Milano; una volta entrò nel suo negozio Luchino Visconti e le disse: farai l’attrice. Indovinò il suo destino, anche se fu aiutato nella profezia da suo fratello, che diventò poi sponsor ed amico di Lucia. Dopo quell’elezione a Stresa, Lucia Bosè entrò nel mito. Venne il cinema; cominciò sostituendo la Mangano che era incinta.
E poi il matrimonio più fantastico che si potesse fare, con il torero – per carità, dice, non lo chiami così, lui si sarebbe offeso – con il matador Dominguin. Lo ricorda bello e tremendo, Lucia Bosè. Aveva donne dappertutto, dice, ma non era colpa sua, se le trovava nell’armadio, sotto il letto, ovunque. Non era facile stare appresso a Dominguin, ripete con un riso amaro. Era il mito vivente della Spagna franchista e taurina, Lucia Bosè. Andavano spesso a colazione da Francisco Franco, dice. Sedeva di solito al suo fianco. Una volta un marchese imprudente disse al Caudillo che lei, Lucia, era “comunista”. In effetti, confida la Bosè, aveva sfilato con una decina di attori e attrici contro il regime, con cartelli, il filo di perle e i tacchi a spillo per via Veneto. Pubblicarono le foto. Un defileé radical chic, che avrebbe fatto strada nel cinema. Dominguin si agitò per la spiata: perché lui, dice Lucia Bosè, era più franchista di Franco. Ma il Generalissimo, che “sembrava un impiegato, non un dittatore”, la soccorse con galanteria: “una donna così bella e intelligente non può essere comunista”. E Dominguin tirò un sospiro di sollievo.
Lucia Bosè dice di aver innalzato uno scudo, però trasparente, per pensare finalmente a sé; rifugiata in una frazione di Segovia, trenta abitanti, dove per le sue intemperanze si è meritata il titolo di “persona non grata”. Dice che se fosse maschio oggi sarebbe gay; perché non le piacciono le donne di oggi, spingono gli uomini alla fuga. E poi sono rifatte, sono finte, più per competizione tra loro che per conquistare i maschi. A lei piacciono le rughe, e le indica sul suo volto: questa è di Dominguin, quest’altra è di Miguel, questa…
Per lei le rughe sono dei memorandum del destino segnati sul volto; sono rughe firmate, griffate dalla vita, come decorazioni e timbri del suo passaggio. Per questo non vanno cancellate, sono lembi di passato, persone, fatti, storie che ci hanno solcato… Dice di non temere la morte e la vecchiaia, sembrando sincera e comunque non apparendo depressa; chissà se, fuor di scena, la sua convinzione proseguisse così poi nella vita…
Da qualche tempo ama stare scalza, dice che la follia o l’Alzheimer comincia dai piedi; direi dalle estremità, azzardai a correggerla, guardando i suoi capelli violacei. Sono tinte vegetali, replicò, me li taglio io i capelli. Ma in quel colore vedi l’artificio per rimuovere e depistare la bellezza che se ne va con lo stupore, il tempo che si mangia il colore dei capelli, e le mani e il collo e il corpo e la mente. Cerchi in quel magazzino di ricordi il volto di quella magnifica ragazza in bianco e nero, intravedi tracce di continuità in mezzo ad una selva di infami imboscate tese dagli anni. Il fascino non è scomparso, rimane la sicurezza che infonde la Bellezza ai suoi miracolati (ne parla senza ipocrisie, “i miei coetanei sentivano che ero diversa, sin da piccola”). Lucia Bosè provò infine a uscire ma diluviava. Un ombrello galante la salvò dal maltempo, ma non dal tempo, sì grande scultore – come scrive la Yourcenar – però spietata scure del fato. Bosè salvata dalle acque, non dagli anni.
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