Quando l’università diventa l’orticello privato

università L’Università italiana non pubblica statistiche di alcun tipo. Non dice nulla sulla classe in entrata, dato che non esiste un test standardizzato nazionale come il SAT americano. Non dice nulla sulla classe in uscita: quanti trovano lavoro, quanto guadagnano, dove lo trovano, eccetera. Anzi, demanda ad AlmaLaurea il servizio e se ne lava le mani.

Quindi con l’eccezione di qualche università privata, le famiglie si ritrovano a scegliere la scuola per i figli sulla base di passaparola e sentito dire. E i giovani, ovunque la facciano, si trovano in uno stesso calderone: anonimi agli occhi delle aziende nel momento della loro uscita e con scarse prospettive occupazionali. Perché in pratica l’università non dice nulla su di loro: andare a Torino, Parma o Firenze non genera nessuna distinzione che genera per un inglese essere ammesso a Oxford invece che al King’s College.

Ma questo lo sappiamo da tempo. E del resto esiste anche una gran parte d’Italia antimeritocratica che si oppone strenuamente all’introduzione di test e misurazioni, anche nei licei, per continuare a perpetrare fenomeni come la “grade inflation” nel sud dove i 100 al liceo e i 110 e lode all’università sorpassano di gran lunga il nord, ma dove le rilevazioni OCSE ci dicono che abbiamo una scuola da terzo mondo.

Il problema della fossilizzazione dell’università è tale per cui mi è capitato di ricevere insulti o lunghe mail polemiche di professori (che avevano molto tempo da perdere) per aver cercato di reclutare studenti presso gli atenei o chiesto di affiggere offerte di lavoro ed altre opportunità sulle bacheche. Il tutto in nome di presunte leggi, privacy o altre diavolerie senza che mi venisse offerto un canale formale attraverso cui farlo. Con una disoccupazione giovanile quasi al 40%, mi sarei aspettato tappeti rossi e limousine fino alle porte degli atenei. Macchè. L’università non solo non si occupa di trovare lavoro agli studenti, ma cerca pure di impedire che il micro-mondo di professori, parenti e parrucconi venga in qualche modo violato anche dalle imprese.

Non è che tutte siano uguali, ma un’università così concepita è terreno fertile per orticelli ad uso privato, come erano i corsi con più professori, che studenti soppressi (spero) da una riforma precedente.

Qual è la natura del problema? I recinti chiusi. A New York ho visto fare lezione un giovane professore giapponese. Come mi diceva un’amica di Harvard, il problema da noi in Italia, è che quello che diventa professore ha fatto l’università lì, la tesi lì, il dottorato lì. “Torno nel mio vecchio ateneo e anni dopo trovo tutto uguale, la stessa gente”. “A Boston mi ritrovo circondata di indiani, coreani, sudamericani. E la gente cambia sempre, in sei mesi ti trovi un team diverso. E’ uno stimolo continuo, una sfida costante, perché tutti i ricercatori portano esperienze di altre università ed è un mondo aperto. Senza questa contaminazione non credo che l’università possa crescere.”

Lei proponeva di riservare quote fra ricercatori, docenti e via discorrendo appositamente a stranieri negli atenei italiani. Se invece che provare ad “arrestare” la fuga dei cervelli, cominciassimo la sfida dell’attrazione dei cervelli?

Rompere gli argini e lasciarci contaminare positivamente potrebbe essere la cura del nostro malcostume e lo stimolo per importare mentalità virtuose. Basta averne la volontà. Da subito.

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