PREFAZIONE di Fabio Canessa

 Pupi Avati rappresenta una felice eccezione nel mondo del cinema italiano. Allergico alle mode, libero dalla paura di sporcarsi con il cinema di genere e dall’ossequio a un’autorialità seriosa e snob, ha sempre seguito la propria ispirazione, prolifica ed eterogenea, imponendo la propria personalità di scrittore e cineasta, capace di trasformare in immagini un mondo ricco di umori, idee ed emozioni che arrivano al cuore dello spettatore firmate da una cifra stilistica inconfondibile. Confluiscono e si impastano nei suoi film l’atmosfera strapaesana di una provincia che racchiude l’universo, il ghiribizzo nonsense, il ghigno diabolico delle atmosfere gotiche, la spudoratezza emotiva espressa senza vergogna, l’attenzione naturalista per i dettagli minuti della quotidianità, l’improvviso scatenarsi di una vena fantastica, la tentazione per il musical, il gusto dell’affresco storico, la tenerezza per la semplicità degli umili, il piacere della magia e dello stupore, la resa intensa della realtà, la grazia fantasiosa dell’immaginazione, il senso del sacro, il gesto beffardo della dissacrazione, la suggestiva evocazione del patrimonio della tradizione, la voglia di trasgredire e innovare, il graffio cattivo che smaschera l’ipocrisia, l’umorismo nero, l’affabulazione coinvolgente della prosa romanzesca e lo slancio lirico della poesia. Il cinema di Avati, giunto ormai al cinquantesimo film, è una jam session perfettamente orchestrata di stili e storie diverse, una partitura jazz dallo swing sorprendente che si sposa a meraviglia con la passione per la musica sincopata del clarinettista Avati. Alternando sapientemente tragedia e ironia, lo sguardo del regista racconta con il medesimo affetto i folli padani e Bix Beiderbecke, gli impiegati e Mozart in visita a Bologna, i cavalieri medievali e una classe di studenti in gita sull’Appennino, la crisi di attori, registi e allenatori di calcio e quella di un furbetto del quartierino. Il male che si annida nelle fiabe nere e quello che ci minaccia con l’Alzheimer si mescolano all’eroico spirito di sacrificio di candidi personaggi che cullano per un’intera vita il loro sogno impossibile. Trasferendo spesso nel passato brucianti nevrosi della modernità, Avati sembra dirci che, in ogni tempo e in ogni luogo, l’uomo è sempre il medesimo: lo smacco del fallimento, il desiderio di essere amati, l’angoscia per il silenzio di Dio, lo struggimento per un talento mancato, la potenza maligna del tradimento e dell’inganno sovrintendono le esistenze dei giovani musicisti di Jazz band come dei cittadini del Medioevo di Magnificat, il padre dell’epoca fascista Silvio Orlando e quello di oggi Johnny Dorelli, il Carlo Delle Piane di Una gita scolastica o Festa di laurea e l’Antonio Albanese di La seconda notte di nozze, gli amici alla partita di carte di Regalo di Natale e quelli del Bar Margherita. Ridicole macchiette o torvi figuri, timidi amanti mai corrisposti o sbruffoni da bar, i personaggi di Avati, a metà tra palio dei buffi alla Palazzeschi e figure deamicisiane deformate da un filtro amarcord alla Fellini, sono tutti umani troppo umani, guardati con maliziosa bonomia da un regista che, identificandosi con loro, sferza prima di tutti se stesso. Mentre ne svela la meschinità, è sempre pronto a celebrarne la sacralità. Quando si scendono gli ultimi gradini di un’implacabile discesa agli Inferi, ci aspetta un inaspettato riscatto e una luce di speranza si fa largo proprio nel bel mezzo del buio più tenebroso. Capace di non indietreggiare di fronte al pessimismo più nero, Avati sa anche concedersi esagerate aperture all’ottimismo più smaccato. Figlio bizzarro di un Sessantotto rinnegato (l’energia corrosiva antiborghese rimarrà intatta, ma incanalata in una sacralità cristiana o esplosa in una sarabanda horror) e di un Fellini rivissuto da un artista controcorrente, Avati è contemporaneamente terragno e metafisico, cattolico e pessimista, incantato e disincantato, capace di osare sentimenti estremi e guizzi surreali, simile a certi suoi personaggi saggiamente matti. Eppure, alla distanza, ci accorgeremo che proprio questo regista, il più estraneo, per gusto e scelta dei generi (memorabili le sue incursioni nell’horror) alla tradizione del cinema italiano, sarà quello che, fingendo di trascurare l’attualità, ha saputo darci il ritratto più vero dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Alla media invidiabile di due film all’anno, Pupi Avati ha saputo regalare agli spettatori uno spettro di emozioni vaste quanto il mondo, dalla risata di pancia al salto sulla poltrona, dall’amarezza esistenziale allo struggimento malinconico, dal brivido noir alla storia d’amore travolgente, toccando di volta in volta l’ambiente del cinema e quello del calcio, la campagna padana e le foreste medievali, i cunicoli segreti di una casa maledetta americana e gli uffici cittadini italiani, i bar di provincia e i seminari di Umbria Jazz. Scrittore di bei romanzi che sono poi i soggetti delle sue pellicole, Avati è anche un magistrale direttore di attori, sempre sfruttati al meglio e sempre brillantemente utilizzati in una chiave espressiva inedita rispetto al cliché che li caratterizza. Dall’Ugo Tognazzi di Ultimo minuto all’Abatantuono di Regalo di Natale, dalla Katia Ricciarelli di La seconda notte di nozze al Silvio Orlando premiato a Venezia per Il papà di Giovanna, dal Lo Cascio di Gli amici del bar Margherita agli irriconoscibili Boldi e De Sica di Festival e Il figlio più piccolo, fino ai più volte presenti Capolicchio, Cavina, Nik Novecento, Neri Marcoré, Laura Morante, Micaela Ramazzotti e Francesca Neri, mai così convincenti, senza dimenticare il grande Giancarlo Giannini in un ruolo inizialmente pensato per Alberto Sordi in Il cuore altrove, il Gabriele Lavia di Zeder, il Carlo Cecchi di L’arcano incantatore e il Luca Zingaretti di Il figlio più piccolo. Un discorso a parte meriterebbe l’Avati televisivo, spesso precursore di un umorismo demenziale spassosissimo, tra Arbore e Chiambretti, in perle dimenticate come la deliziosa fiction Dancing Paradise o l’irresistibile varietà Hamburger Serenade, un guazzabuglio di comicità molto in anticipo sui tempi. Oppure l’autore di recenti film per la tv coraggiosamente in controtendenza rispetto alle consolatorie prime serate di RaiUno: pensiamo a Il bambino cattivo, Con il sole negli occhi, Il sogno di Laura e, soprattutto, all’ultimo Il fulgore di Dony, un bellissimo elogio della follia di ogni amore profondamente autentico e disinteressato. Difficile indicare quale sia il suo capolavoro: il generoso dispendio di generi e umori eclettici impedisce di individuare un film capace di sintetizzare una poetica così varia e composita (messi alle strette azzarderemmo Le strelle nel fosso). Tanto più oggi, quando Avati festeggerà gli ottant’anni tornando al gotico sfrenato di un cult come La casa dalle finestre che ridono: sono infatti imminenti le realizzazioni del film Il signor Diavolo e della serie tv per Sky Bare galleggianti, due horror padani che promettono sgomento, spiazzando ancora una volta chi azzardi il bilancio di un fuoriclasse della nostra cinematografia. Firmando un vero e proprio requiem per il cinema italiano come La cena per farli conoscere, con commossi omaggi a Pietro Germi e Sergio Corbucci, Avati sembra non aver tenuto conto del proprio cinema. Così largo e lungo da sapere abbracciare tutti i generi e gli autori, tanto da spremere i succhi della commedia all’italiana quanto dell’insegnamento dei grandi maestri (Fellini in primis) e di centrifugarli, facendoci individuare tutti gli ingredienti, ma cucinati secondo la ricetta doc dell’Avati touch, fino a conferire loro una sconfinata giovinezza.

Fabio Canessa

 

I 10 AVATI IMPERDIBILI

LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO

LE STRELLE NEL FOSSO

FESTA DI LAUREA

REGALO DI NATALE

LA VIA DEGLI ANGELI

IL CUORE ALTROVE

LA SECONDA NOTTE DI NOZZE

LA CENA PER FARLI CONOSCERE

IL PAPA’ DI GIOVANNA

UNA SCONFINATA GIOVINEZZA

 

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Collabora con Futuro Europa, Inkroci, La Folla del XXI Secolo, La Linea dell’Occhio e altre riviste. Dirige le Edizioni Il Foglio Letterario. Traduce gli scrittori cubani Alejandro Torreguitart Ruiz, Felix Luis Viera, Heberto Padilla e Guillermo Cabrera Infante. Tra i molti lavori ricordiamo: Nero Tropicale, Cuba Magica, Un’isola a passo di son - viaggio nel mondo della musica cubana, Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura, Almeno il pane Fidel, Mi Cuba, Fellini - A cinema greatmaster, Velina o calciatore, altro che scrittore!, Fidel Castro – biografia non autorizzata, Fame - Una terribile eredità, Storia del cinema horror italiano in cinque volumi, Soprassediamo! - Franco & Ciccio Story. Ha tradotto La ninfa incostante di Guillermo Cabrera Infante (Sur, 2012). Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino, il suo ultimo romanzo, nel 2014 è stato presentato al Premio Strega. In uscita il romanzo breve Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano e due testi di cinema: Gloria Guida, il sogno biondo di una generazione e Divina creatura - Il cinema di Laura Antonelli. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Blog di cultura cubana e letteratura: Ser Cultos para ser libres (http://gordianol.blogspot.it/). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

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