Il fatto. A Campegine, bassa reggiana,
zona rossa, sede del museo Cervi, famiglia mito della Resistenza italiana, che da quelle parti proseguì anche dopo il 25 aprile.
Un uomo di settant’anni spara alla sua badante amante, poi entra nel bar, come fosse un saloon e fredda il presunto rivale.
Nella sparatoria, come in un vecchio film, viene ferito un avventore.
Storie consuete, si dirà, in una nazione dove i matrimoni o le unioni di fatto, fra anziani e donne dell’Est, superano quelli fra giovani. Solo che la pistola usata dall’omicida è una Walther 38, in uso agli ufficiali dell’esercito tedesco durante l’ultimo conflitto mondiale ed allora siamo in un romanzo di Loriano Macchiavelli, solo che il triangolo non ha Quattro lati, ma i classici tre: lui, lei, l’altro, però il quarto lato, a ben guardare c’è, la pistola riemersa dal passato.
L’omicida parla e coinvolge altri anziani, tra cui il presidente del locale circolo Arci, si scoprono altre munizioni ed armi del periodo bellico, visto l’effetto, ancora funzionanti, la polizia è scatenata, come ai tempi di Scelba.
Del resto la Cancellieri ha la faccia da dura, si cercano pure armi pesanti, chissà che non si trovi anche il carrarmato di Peppone e don Camillo.
Probabilmente quelle armi dovevano servire per la rivoluzione, quella vera, che avrebbe dovuto portare i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli in piazza S Pietro. Invece, ironia della storia, questi “partigiani”, sono caduti vittima del bunga bunga e sebbene si trattasse di una russa, non era la rivoluzione.
Poi finiti i soldi, finito l’amore.
Almeno così raccontano le cronache dei giornali, magari un po’ romanzate e le pistole della rivoluzione finiscono coinvolte in storie di povertà e disperazione e la vicenda finisce nelle pagine della cronaca nera più pruriginosa.