Pandemia e paura di perdersi.

Nel mondo anglofono vi è un popolare acronimo “FOMO”, che sta per “fear of missing out”. Si usa spesso per descrivere quella sensazione di paura di perdersi il meglio, o di perdersi cose interessanti.

Questa pandemia mi ha dato modo di realizzare che FOMO non è solo un’espressione colloquiale, ma un vero e proprio sentimento che ormai serpeggia costantemente nel nostro tono emotivo come il basso in una traccia musicale, a volte quasi indistinguibile, ma immediatamente evidente nel momento in cui viene rimosso.
Proprio questo è accaduto con il dilagare del virus: mi sono reso conto che io, come la maggioranza di chi vive in società chiamiamole moderne, viveva anche in una perenne condizione di FOMO.

La FOMO è alimentata principalmente da due fattori. Il primo è che il capitalismo per sua natura prevede una continua immissione sul mercato di nuovi prodotti, nuovi servizi e iniziative. Se questo è un bene perché incentiva l’imprenditorialità delle persone nel trovare nuove soluzioni ai problemi dell’umanità, dall’altro prevede che di continuo si vada alla ricerca di nuove nicchie, mercati, “upgrade”, proposte. Quindi dal lato consumatore è inevitabile venire bombardati da mille alternative: dove andare in ferie, che prodotti comprare, in che locale fare serata, dove cenare, a quale conferenza o teatro partecipare, come vestirsi, eccetera.

Il secondo fattore è che attraverso i social siamo anche costantemente esposti alle scelte degli altri. Ci troviamo a Bali in vacanza e scopriamo che ci siamo persi un mega-evento nella nostra città. Ci troviamo in viaggio di lavoro e impariamo che c’era una promozione nel negozio sotto casa, o al contrario se siamo sotto casa, vediamo in qualsiasi momento almeno dieci dei nostri contatti alle Bermuda o altre mete esotiche. Insomma, come mai prima nella storia, per ogni opzione che abbiamo a disposizione, veniamo anche costantemente esposti alle altre dieci che ci stiamo perdendo.

La pandemia improvvisamente ci ha tolto il 90% di quelle opzioni. Niente più fear of missing out. Nessun viaggio mancato, nessuna serata persa, nessun evento mondano a cui rinunciare.
E allora uscito dall’assuefazione di questo mondo che girava ai mille all’ora, ho avuto modo di riflettere su come, per quanto fosse bello avere tutta questa libertà, vi era il rischio di perdere di vista il confine fra una vita che scorre e una che scivola via. Per fare un esempio: prima della pandemia dovevo prenotare un ritiro per il mio team di lavoro e fra le altre trasferte già fissate, conferenze, ferie e impegni vari, mi ero trovato nella posizione da dover calendarizzare questo ritiro almeno sei mesi avanti. Anche nel mondo professionale, laddove un tempo esisteva solo il lavoro (ossia ciò che si fa relativamente al proprio ruolo), ora esiste anche tutto il contorno del lavoro che pare non esaurirsi mai: conferenze di tema, fiere, aggiornamenti, inviti a colazioni di lavoro, inviti a fare da speaker, aperitivi di “networking” a latere e via dicendo. Perché non vi è solo un’

 esplosione di prodotti ma anche di servizi, quindi molteplici società di consulenza, di eventi e tutto il terziario che vive dell’indotto del lavoro diciamo “produttivo”, crea ulteriori piattaforme, sovrastrutture e contesti a cui si può, o a volte si deve, partecipare. Ma la nostra giornata resta di 24 ore, non si è espansa per accomodare questa esplosione di impegni e possibilità.

Così durante la pandemia, complice il tempo libero e la difficoltà a viaggiare o partecipare a eventi (se non virtuali), ognuno di noi ha scoperto nuovi hobby o passioni. Ho l’amico che ha preso la bicicletta per fare un giro a East Coast Park e ora, mesi dopo, ha investito migliaia di euro in attrezzature professionali e fa centinaia di chilometri. Quando le frontiere riapriranno le sue prossime ferie saranno “ciclistiche”, a scoprire tornanti e scalate invece magari di un classico resort a pacchetto, un cambiamento che senza pandemia avrebbe difficilmente immaginato. Io ho preso a giocare regolarmente a tennis e non sono il solo, vista la difficoltà improvvisa a reperire campi e maestri disponibili a Singapore, dove vivo. Tantissimi hanno iniziato a cucinare, c’è chi ha iniziato a meditare, a giocare a golf, a leggere o a studiare e formarsi su temi diversi.

Molti di questi interessi non sono stati solo modi per ammazzare il tempo. Al contrario, sono impulsi autentici, spesso radicati nel profondo, che non avevamo il tempo di ascoltare, troppo presi a correre da un punto all’altro e soffocati dal rumore di tutti quelli che fanno a gara a urlare più forte per avere la nostra attenzione: la risorsa primaria che serve per poter vendere.

Abbiamo riscoperto anche modi diversi di stare insieme: inviti a cena in casa, piccoli raduni autogestiti. Con i bar chiusi ho riscoperto che esistono i giochi da tavolo, non ci giocavo forse da un decennio. Ma non solo, a quanto pare è un’industria tuttora viva e vegeta e i videogames non se la sono portata via, come invece avrei continuato a pensare, non fossi entrato in un negozio a cercare qualcosa di simile a Risiko, per organizzare una serata a casa.

Purtroppo, insieme a qualche sprazzo di autenticità e un po’ più di ascolto dei nostri bisogni, il periodo di limitazioni non ha certo cancellato per molti il lato più stagnante, meno utile di noi stessi: il cascare in steriche polemiche sui social, l’attenzione alle scemenze, l’attaccamento a celebrità vacue come i Ferragnez o il tempo perso a guardare costosi eventi che non ci elevano dalla mediocrità, come il carrozzone di Sanremo.

Alla fine il mondo di prima tornerà, portandosi dietro sia il bello, come poter viaggiare e vedere le meraviglie della terra, l’abbracciarsi a viso scoperto, fare festa in riva al mare, sia la confusione di cui abbiamo parlato e quella insidiosa sensazione di FOMO.
E sarà allora che dovremo essere bravi a ritrovare un nostro equilibrio, un modo più saggio di gestire il tempo, che complice lo smart working – altro “dono” della pandemia – sarà presumibilmente più nostro. Dovremo avere la giusta misura, quando di nuovo verremo spinti solo a consumare e produrre per fare “ripartire l’economia”. Un equilibrio attento a cogliere le possibilità che tanto ci sono mancate, ma a passo più lento, senza scaricare nel tombino le nostre ritrovate passioni e piccole, a volte semplici, abitudini.

Se sapremo fare questo, allora la pandemia ci avrà offerto il modo di vivere una vita più realizzata, e come conseguenza, di realizzare tutti insieme un mondo migliore.

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