Le lacrime di Neymar. L’impotenza di Messi e Cr7. Gli errori dei portieri. La tensione dei rigori. Lo piscologo Bisagni spiega la ricetta per gestire le emozioni: «Resilienza, confronto e controllo
dell’ansia».
el film Ogni maledetta domenica Al Pacino parlava di centimetri da conquistare sul campo come nella vita. Perché la loro somma avrebbe fatto la differenza tra la vittoria e la sconfitta. E così facendo motivava la squadra di football che allenava. Quanto conta la psicologia nello sport? Tanto, se è vero che molti di quei centimetri si trovano proprio nella testa degli atleti.
TRA FALLIMENTI E LACRIME DI TENSIONE
Michele Bisagni è uno psicologo psicoterapeuta, istruttore di meditazione sportiva. E suo padre, Daniele Bisagni, è lo psicologo referente della Figc (Federazione italiana gioco calcio) in Emilia-Romagna. Insieme hanno scritto articoli scientifici sui temi della motivazione e della flessibilità psicologica nel mondo dello sport e insegnano nei corsi dedicati agli aspiranti allenatori per l’ottenimento del patentino Uefa B. Lettera43.it si è fatta aiutare da loro per comprendere meglio psicodrammi e risvolti psicologici dei Mondiali di calcio di Russia 2018: i fallimenti – seppur diversi – di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, le lacrime di Neymar, gli snervanti calci di rigore.
DOMANDA. La Svezia si è affidata al mental coach Daniel Ekvall, mentre il ct dell’Inghilterra Gareth Southgate ha voluto nel suo staff la psicologa Pippa Grange. Una buona salute psicologica può fare la differenza tra il successo e l’insuccesso?
RISPOSTA. Secondo Marcelo Bielsa (oggi allenatore del Leeds in Seconda divisione inglese, ndr), gestire al meglio la parte umana di una squadra è il mezzo che segnerà la differenza da oggi in avanti, perché su tutto il resto si è già lavorato.
D. È d’accordo?
R. In effetti ogni calciatore professionista è costantemente seguito dal punto di vista atletico, tecnico e tattico, mentre la componente psicologica rischia spesso finire in secondo piano. Eppure le emozioni sono sempre decisive, tanto nel moltiplicare le forze degli atleti quanto nel limitarne la performance.
D. Messi non è riuscito a far vincere l’Argentina: stampa e tifosi lo accusano di non trascinare la nazionale come fa col suo club, il Barcellona. Come si lavora sulla testa di un giocatore affinché una convinzione instillata da altri non si sedimenti nella mente e finisca per condizionare le prestazioni sul campo?
R. Messi è costantemente sottoposto a una pressione elevatissima, perché la sua straordinaria grandezza si sposa con quella di una nazionale di prim’ordine, che tuttavia da anni non riesce a essere all’altezza delle attese. Non è semplice gestire aspettative di questo tipo, quando 11 metri sembrano sancire la differenza tra il più grande di sempre e un’eterna incompiuta.
A Messi è mancata la serenità, il senso del dovere ha prevalso sulla sua voglia di divertirsi facendo quello che gli riesce meglio
D. Può essere aiutato?
R. Sicuramente bisognerebbe conoscere meglio le dinamiche interne alla Nazionale argentina, ma Messi potrebbe essere aiutato a capire che non è solo, e che non tutto dipende da lui, offrendogli, perché no, anche uno spazio personale per gestire i suoi dubbi e le sue eventuali fragilità. Credo che gli sia mancata la serenità, e che il senso del dovere abbia prevalso sulla sua voglia di divertirsi facendo quello che gli riesce meglio: partire palla al piede puntando la porta.
D. Si è parlato tanto dello spogliatoio polveriera dell’Argentina, con il ct Jorge Sampaoli che dopo la sconfitta contro la Croazia è stato delegittimato dalle critiche. Come si può comportare un allenatore per riconquistare la fiducia della squadra?
R. Possono essere importanti un dialogo aperto e la condivisione prioritaria di un una sorta di “contratto”: se l’allenatore è disposto a mettersi in discussione personalmente, è fondamentale che anche il gruppo faccia lo stesso. Talvolta mancano i momenti di confronto: il “non detto” può sedimentarsi ed emergere in maniera più potente e distruttiva nei momenti di maggiore pressione.
D. Neymar ha pianto dopo la vittoria nel recupero contro il Costa Rica. La pressione può portare a questo tipo di reazioni?
R. Ci sono tante espressioni di emotività, spesso anche commoventi, come le lacrime a partita ancora in corso di Josè Gimenez, a un passo dalla sconfitta con il suo Uruguay nei quarti contro la Francia. Non vedo nulla di male in una reazione, peraltro manifestatasi a fine match, così potente, ma anche così genuinamente spontanea come quella di Neymar, che si è sentito in dovere di portarsi sulle spalle un’intera nazione e una generazione di giovani fan, in un continuo confronto con Messi e Cristiano Ronaldo, se non addirittura con Pelè.
D. Sono aspetti su cui si può lavorare?
R. È interessante valutare se la sfera emotiva impedisca, durante un match, di rendere al massimo delle proprie potenzialità, tanto nei casi di ansia paralizzante quanto in quelli di rabbia e nervosismo: è su queste componenti che è possibile impostare un lavoro molto proficuo.
Come si supera il vissuto di un errore? Riconoscendo la componente istruttiva e lasciandosi scivolare addosso quella distruttiva
D. In questi Mondiali non sono mancati gli errori dei portieri. Da Caballero dell’Argentina a Muslera nell’Uruguay. A maggio c’era stata la doppia papera di Karius del Liverpool nella finale di Champions League. Come si può evitare di finire vittime di un errore, per quanto questo possa essere stato pesante?
R. Parafrasando il portiere del Milan Pepe Reina e il campione del mondo Fabien Barthez, quello del portiere è un ruolo ingrato e fatto di solitudine. Anni dopo il clamoroso infortunio che condannò la sua Irlanda ai Mondiali del 1994, Pat Bonner scrisse che nella vita si fanno errori, e che limitarli a uno o due significa riuscire bene.
D. Può una papera rovinare la carriera?
R. Alcuni condizionano carriere ed esistenze: Moacir Barbosa fu perseguitato fino alla morte in Brasile per la topica che consegnò all’Uruguay il Mondiale del 1950. Ma ci sono suoi illustri colleghi, da Dino Zoff a Oliver Kahn, universalmente riconosciuti nell’Olimpo del ruolo nonostante incertezze ormai passate alla storia.
D. Come si potrebbe gestire il vissuto di atleti, comunque ottimi, come Karius o Muslera?
R. Esistono due strategie da combinare: riconoscere la componente istruttiva di un errore e lasciarsi scivolare addosso quella distruttiva, lavorando moltissimo sulla resilienza, ossia la capacità di riorganizzarsi di fronte alle difficoltà e alle critiche, drammaticamente frequenti e ingenerose in un mondo contemporaneo così “social”.
D. Il trauma può condizionare la mente?
R. Di fronte a esperienze così traumatiche è naturale la tendenza a evitare i gesti tecnici e le routine sportive che possono esporre a un nuovo fallimento: è invece importante riavvicinarvisi con gradualità, conciliando la pressione verso un rapido recupero con i tempi che fisiologicamente servono per metabolizzare un errore.
L’ansia o la rabbia non vanno evitate, controllate o combattute: bisogna riconoscerle come nostre componenti naturali
D. In questi Mondiali molti hanno fatto i conti con la roulette dei calci di rigore: quando si va sul dischetto ci sono dei metodi per non farsi divorare dalla pressione?
R. L’opera più completa sull’argomento è Undici metri del giornalista inglese Ben Lyttleton: la squadra che calcia per prima vince nel 61% dei casi, i tiratori che giocano in casa segnano con una percentuale pari all’82% (che in trasferta scende al 75%), calciare subito dopo il fischio significa avere successo al 90% (se l’attesa dura più di 4 secondi, essa crolla al 61%).
D. Cosa consigliano gli scienziati?
R. Di non voltare le spalle al portiere, di effettuare una rincorsa rapida al fischio dell’arbitro e di non cambiare mai idea. Le variabili da considerare sono molteplici, e non è affatto strano che ai rigori sia dedicata una preparazione specifica anche da un punto di vista psicologico.
D. Di cosa si tratta?
R. Fino a qualche anno fa si puntava a potenziare l’autocontrollo rispetto a pensieri ed emozioni che avrebbero potuto inibire la performance. Gli studi più recenti hanno invece cercato di introdurre un programma basato sulla mindfulness (la consapevolezza, ndr) e sull’accettazione.
D. A cosa servono?
R. La prima aiuta a chiarire ciò che si pensa e si prova in ogni determinato momento, migliorando l’attenzione e le abilità percettive: gli atleti si distraggono meno e sono più capaci di direzionare l’azione sul proprio obiettivo.
D. La seconda?
R. Consiste nel promuovere tra gli atleti il contatto quotidiano con esperienze potenzialmente disturbanti come l’ansia o la rabbia, senza cercare di evitarle, controllarle o combatterle: riconoscerle come nostre componenti naturali, e non come realtà distruttive o spaventose, aiuta a gestire meglio lo stress, tanto in allenamento quanto in partita.
D. L’Italia a questi Mondiali non ci ha messo piede. Un fatto che potrebbe minare l’autostima di un gruppo anche per le competizioni a venire oppure dare energia positiva per ripartire da zero?
R. Mi piacerebbe che la delusione potesse diventare un trampolino di lancio per le competizioni successive. Come si può agire su un pensiero come «non sono all’altezza della situazione»? Storicamente si è puntato su strategie basate alla sostituzione di pensieri negativi con altri dal contenuto più positivo, ma nei momenti di sconforto o delusione è difficile convincere una persona circa il suo reale valore.
D. Come uscirne?
R. La nostra mente è programmata per focalizzarsi prioritariamente su ciò che non va: pertanto, invece di provare a modificare o controllare i pensieri, si può imparare a gestirli, ad avere con loro una relazione diversa, in modo tale da non esserne limitati nel fare ciò che è importante per noi.
Da: Lettera43