Difficile definire Matt Ridley. Giornalista, scrittore, economista. E politico: in quanto quinto Visconte Ridley siede nella House of Lords britannica come membro ereditario. Per il partito conservatore: è però un evoluzionista, gli interessa sapere come le cose si trasformano e trasformano.
Lord Ridley, da dove viene questa riduzione della povertà?
«Viene dall’innovazione, dal commercio, dalla tecnologia, dalla disponibilità di energia. E dal fatto che le persone lavorano l’una con l’altra, che non siamo più in un mondo di autosufficienza. Se lasci che si sviluppi un’economia della condivisione, hai un effetto straordinario sulla riduzione della povertà».
I Millennium Goal delle Nazioni Unite non hanno avuto un effetto?
«La riduzione è avvenuta per un processo dal basso, bottom-up. Dall’innovazione, dall’apertura dei commerci. I Millennium Goal sono stati utili per ricordare che migliorare è possibile, perché la gente tende a credere che le cose non possano che andare peggio».
La povertà estrema cala ma si fa un gran discutere di disuguaglianza.
«La disuguaglianza non conta se siamo tutti ricchi e tutti ci arricchiamo. La cosa difficile da fare comprendere è che non siamo in un gioco a somma zero, dove se uno s’arricchisce l’altro impoverisce».
Qual è il ruolo di scienza e tecnologia?
«Basta vedere cos’hanno fatto i farmaci retrovirali nel controllo dell’Aids in Africa. O delle tecnologie nella lotta alla malaria. Ma anche i telefoni mobili, che quando sono nati credevamo fossero strumenti di lusso: hanno trasformato la vita dei contadini e dei pescatori dei Paesi poveri che ora possono vendere i prodotti sui mercati migliori. E l’energia a prezzi accettabili è fondamentale: è il più formidabile liberatore di capacità, amplia le opportunità di produrre, di studiare. Un miliardo di persone è senza accesso a energia su basi stabili; sarebbe bene che si permettesse di costruire centrali a gas, a carbone, nucleari».
C’è ancora fame nel mondo. Entro i1 2050 saremo due miliardi in più. Produrremo abbastanza cibo?
«Abbiamo raddoppiato la popolazione del mondo negli scorsi 50 anni e nello stesso tempo abbiamo aumentato del 30% la disponibilità dì cibo pro capite. C’è ancora una distribuzione non equilibrata, ma nel mondo non ci sono più carestie, se non quelle provocate dalla politica. Nel 2050 saremo 9 miliardi ma produrre abbastanza cibo sarà più facile e basterà meno terra grazie ai progressi di tecnologia, sementi, irrigazione, uso del suolo».
C’è dibattito sul fatto se sia meglio l’agricoltura locale o quella destinata al commercio internazionale.
«In passato, se un mercato locale aveva un anno di produzione pessima si creava una carestia. Trasportare prodotti agricoli costava troppo e nessuno aveva il denaro per comprarli. Oggi, se hai un cattivo raccolto è molto difficile avere una carestia, importi ciò che ti serve: è improbabile che i raccolti crollino in tutto il mondo. Questi sono i grandi benefici del commercio. In più, si coltiva quello che è meglio coltivare in un luogo piuttosto che nell’altro. E si ha il meglio di tutto. La regina Vittoria non ha mai assaggiato un mango».
Vede un ruolo per i governi in questa spinta bottom-up?
«Un ruolo credo che lo abbiano: mettere nelle condizioni le persone di risolvere i problemi. Invece spesso sono il problema: quando rendono incerte le regole delle leggi sulla terra, per esempio, disincentivano gli agricoltori a investire».
Ci sono rischi che possono fermare questi progressi?
«Farli deragliare e fermarli è sempre possibile. Lo abbiamo visto con gli imperi cinese e romano. Oggi è più difficile: è quasi impossibile spegnere internet. Temo però che senza una leadership delle democrazie l’America, potremmo anche avere una versione globale dell’impero romano. Ci sono gruppi di pressione, laici e religiosi, che spesso hanno successo nello spingere indietro i progressi: basta pensare alle opposizioni che rallentano lo sviluppo degli organismi geneticamente
modificati».
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