Ricordo il mio primo anno di liceo. C’erano le assemblee d’istituto e riempivamo il palazzetto dello sport intero. Prima c’erano i dibattiti e poi suonavano le band studentesche. Alcune diventavano conosciutissime proprio partendo da lì. Quasi solo generi alternativi: rock, punk, rap, ska, acustico. C’era grande partecipazione. Ripenso poi ad una protesta organizzata in modo composto ma molto deciso contro la preside. Gli studenti di quinta erano stati bravissimi: ci avevano assegnato compiti, avevano raccolto dati e domande spiazzanti da farle, ci avevano incaricato di preparare striscioni, ma anche raccomandato di mantenere un atteggiamento rispettoso per non darle un alibi per andarsene.
Ricordo la mia ammirazione verso di loro. Durante gli intervalli poi, nel corridoio capitava di vedere un assembramento di ragazzi intorno a qualcuno: stava raccontando di un festival musicale a Bologna o Milano a cui aveva partecipato, mentre noi, più piccoli non eravamo andati. C’era la paura e l’emozione nel partecipare a questi eventi, spesso band americane di nicchia.
Ognuno a quel tempo aveva un suo stile, modi anche buffi per sembrare ribelli, ma essere ribelli era lo status quo. E credo fosse la cosa giusta a quell’età: sperimentare, giocare con le mode, i colori, i vestiti, i capelli, le convenzioni. Poi sono arrivato in quinta. Le assemblee erano vuote: dopo la prima ora tutti tornavano a casa col benestare dei genitori. Ormai anche le “fughe” erano autorizzate. Adesso già dal liceo si va in discoteca di venerdì. Io invece rivivo l’emozione della prima uscita al venerdì durante l’università perché segnava un passaggio. Ricordo la paura di essere beccato quando si “bigiava” e i cazziatoni che ci siamo buscati. E quanto è divertente ora riparlarne.
Erano bastati solo cinque anni e la partecipazione era già sparita, i rappresentanti d’istituto che venivano eletti erano gente che fino a qualche anno prima veniva derisa in ogni corridoio. Ora con un po’ di propaganda per le classi raccattavano i voti di gente a cui tanto non fregava niente, della scuola (il nostro mondo), di ribellarsi, di essere rappresentati, di trovare un proprio stile.
Il percorso che ho visto in cinque anni in una microsocietà scolastica è quello della nostra società intera. Io ora non so cosa succeda nelle scuole e credo di non volerlo sapere. Non voglio dire che sia colpa dei ragazzi e credo che anzi gli manchino gli input positivi. Ma quando vedo questi nuovi quindici-ventenni mi sento incazzato nero. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, certo. Ma questa è una situazione surreale: invito i genitori a farsi un giro su Facebook e guardare le foto di queste nuove generazioni. Vestiti e pettinati che sembrano tutti usciti da “Amici”, delle pose da rincoglioniti, un conformismo spaventoso, la giornata passata a commentare e arrovellarsi il cervello sul fidanzato, su “quella stronza che ha commentato la foto e ci prova col mio ragazzo”, la gelosia, le maldicenze e il gossip, l’ostentazione delle coppiette, un italiano da bocciature di massa e dei dialoghi da processo.
Ma dove cavolo è finita l’anima di questa gente? Sembrano tutti uguali, dove è finita la ricerca di un’identità, la grinta? La voglia di sperimentare, di provocare? Io non ce la faccio a guardare questo spettacolo. Per me ormai è all’80% carne da cannone, roba da imbucare alle feste dello showbusiness alla meglio, o a vendersi per l’affitto, due ricariche del telefono e poco più. Ed è quello che già succede e non potrà che peggiorare.
Faccio la mia previsione? Questo paese,ahimè, non ce la può fare. Non ha futuro. Non ha il materiale umano. E per capirlo non ci vuole tanto, non servono i dati della Banca d’Italia, dell’Istat o della BCE: bastano cinque minuti su Facebook.
Devi accedere per postare un commento.