L’ingresso di Chiara Ferragni nel CDA di Tod’s rappresenta in qualche modo una svolta nel mondo delle celebrity social e influencer, in quanto va al di là delle classiche partnership fra personaggi famosi e brand da tempo in essere, e propone invece un nuovo modello dove l’influencer sta – almeno in teoria – anche al centro delle decisioni strategiche del brand stesso.
Detto che la mera partecipazione in un CDA rappresenta poi spesso un potere decisionale più teorico che fattuale, l’operazione appare anche come un tentativo tanto alternativo quanto disperato di fare marketing, da parte di una azienda in forte sofferenza, il cui valore del titolo e gli utili sono precipitati negli ultimi cinque anni e che in qualche modo si avvantaggia con questa operazione dei 50 milioni di follower che seguono la nuova rappresentante del consiglio.
Resta comunque innovativo il percorso con cui la Ferragni è arrivata al CDA; laddove molti passano da incarichi di CEO o CFO di imprese e percorsi manageriali più classici, attraverso società di consulenza o scuole di management lei vi è arrivata da imprenditrice dei social, ma in particolare sull’onda Instagram, un social basato soprattutto sulle fotografie e l’immagine. E questo ci da la cifra di quanto nel nostro tempo ormai pesi, e rappresenti una nuova forma di potere, questo nuovo modo di comunicare.
La motivazione della scelta di Tod’s ha molto a che fare, secondo il loro comunicato, con la capacità di Chiara Ferragni di entrare in contatto, capire e interpretare il mondo giovanile.
Questo però mi ha spinto ad una riflessione più ampia su tutte queste star dei social media, in particolare di Instagram, il social network forse più immediato ma superficiale, dove si cerca di catturare le pupille ma difficilmente si può – per limiti di spazio e struttura – sviluppare un ragionamento o un approfondimento.
Davvero dobbiamo riconoscere merito a queste persone di aver saputo “interpretare” o “entrare in connessione” con il loro pubblico o con i giovani?
Penso piuttosto che in ognuno di noi convivano più parti, diverse, a volte in contraddizione. La nostra identità non è qualcosa di granitico, in ciascuno di noi possono albergare allo stesso tempo spinte a gesti di generosità, come invidia. Custodiamo una parte che vuole migliorarsi, fare del bene e una parte che invece si deprime ed è portata alla critica o alla lamentela. Ognuno di noi alberga nel proprio animo la capacità di provare compassione, esercitare pazienza, umiltà, così come la tendenza all’arroganza, alla cupidigia, al malanimo.
E allora è più giusto dire che ogni immagine, ogni pubblicità, ogni personaggio mediatico, entra in contatto con una parte di noi, e rappresenta semmai una particolare tendenza di una generazione, non la generazione stessa.
Ma siamo sicuri che la parte a cui fanno appello le celebrità sia la parte migliore di noi? La parte migliore dei giovani? Purtroppo penso che il formato di questi social media, costruiti scientificamente per creare dipendenza attraverso la dopamina, per spingerci al consumo continuo, siano invece disegnati per tirare spesso fuori la parte peggiore di noi, quella più istintiva, subitanea, reattiva.
E quindi è inevitabile che tali piattaforme risultino più premianti per chi comunica in maniera tale da entrare meglio a contatto non con il pubblico in generale, ma con quella parte di personalità che è propensa a rispondere a certi stimoli.
E purtroppo è proprio la parte del nostro cervello più bestiale, che ci porta a fermarci più facilmente su un post che mostra un paio di tette piuttosto che un gesto di compassione, su un titolo scandalistico o violento, piuttosto che un approfondimento.
Entrare in contatto con la parte migliore di noi, spesso richiede molto più tempo dei pochi secondi che – i marketer ci insegnano – il social ci concede per catturare l’ascoltatore; semmai richiede un andare in profondità che presuppone silenzio, onestà , quiete. Una quiete non facile da trovare fra le urla di piattaforme impestate di venditori a caccia di attenzione.
Si può entrare in contatto con la parte migliore di noi fra i banchi di una chiesa, le colonne di un tempio, le rive di un ruscello, magari anche le mura di un ospedale, di un centro di volontariato, un gruppo di condivisione. Ma nessuna di queste cose vende, fa scalpore, genera attenzione in quei dieci secondi che servono per strappare un like o un “follow” alla pagina. Peggio, molte delle cose che nella vita ci rendono migliori, ci arricchiscono, ci fanno crescere, sono gratuite.
E allora non penso che i nuovi modelli di successo vadano sempre e necessariamente emulati o ammirati, anche quando portano a scalare la piramide sociale fino ai consigli di amministrazione.
Credo occorra ripensare a cosa voglia dire entrare davvero in contatto con il proprio pubblico, la propria generazione, ma non per vendere qualcosa, o per calcolare il numero di follower da monetizzare, come misura del successo. Forse l’unica vera misura del successo, non è entrare in contatto con 50 milioni di follower, ma solo 100 pero’ aiutarli a toccare la parte migliore di loro stessi.