A un certo punto, quando già rombava a mille su Canale 5 il motore del “Grande Fratello Vip”, la regia ha inquadrato l’ingrediente più carismatico della serata:
un tondo e quanto mai prosaico culo, agghindato per l’occasione con lingerie di pizzo nero.
Inquadratura che per compiacimento e stile entrerà nel grande archivio dello squallore Mediaset.
Anche perché in quel momento, finalmente, si è colto a pieno quel poco che c’era da cogliere:
cioè che al di là dei gusti personali, delle sensibilità personali e della disponibilità a farsi avvilire da un qualsivoglia trash-reality, si era entrati nella dimensione dell’Oltre.
Quella tundra gelida dove parole, suoni, volti, pettinature e persino applausi trovavano somma sintesi nella fissità carnale di due chiappe.
Nulla ha potuto Alfonso Signorini, garante cronico del tele-peggio, con la sua nenia a base di «Amoreee!», «Tesorooo!» e aberrazioni lessicali alla «Tanta roba!»;
come altrettanto poco, sul fronte del meglio, ha consegnato al pubblico Ilary Blasi, perfetta è vero nella sua conduzione muscolare e garrula assieme, ma troppo clone di madame Marcuzzi.
Il problema – come un tempo gli oratori dicevano alle masse operaie – è il concetto stesso della trasmissione.
Se il “Grande fratello”, a inizio anni Duemila, era il manifesto programmatico di un millennio svuotato dal baco del voyeurismo e dell’inerzia sociale, questa variante Vip celebra le macerie della tv commerciale e del concetto storico di Very Important Persons.
Altro non sono i concorrenti – da Costantino Vitagliano a Valeria Marini, da Antonella Mosetti a Stefano Bettarini, da Elenoire Casalegno a Tatanka Russo – che lemuri autolesionisti.
Becchini ridanciani del loro e nostro passato.
Il che non stride, sia chiaro, con il tripudio del 21,62 per cento di share e i 3 milioni 800 mila italiani che hanno seguito lo show:
anzi, dopo decenni a coltivare il brutto, sarebbe stato eccentrico un esito differente.
Da: L’Espresso
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