Il magazine The Free Press (thefp.com) da tempo dedica inchieste su temi quali la perdita di credibilità dell’Accademia americana. Un dettagliato reportage titola “Come la Diversity, Equity e Inclusion sta soppiantando la verità come missione delle università americane” e spiega che l’ossessione per questi temi, e le varie Critical Race Theory e Gender Theory, stanno minando alle fondamenta anche la libertà di espressione e la meritocrazia stessa di istituzioni primarie come Stanford o Berkeley, dove la selezione persino del personale docente non è più basata sulla qualità della ricerca scientifica prodotta (e dunque la ricerca della verità) ma sull’impegno alla promozione di tali cause sociali, fortemente tinte di ideologia.
Purtroppo, questa lenta morte della meritocrazia, l’avevo già constatata anche nel mondo aziendale, ormai dominato anch’esso dalla dittatura del DEI (diversity, equity e inclusion) e quote varie a scapito della valutazione dell’individuo. Sarà un caso, ma le persone più valide che conosco, specie se dotate anche di valori, spina dorsale e senso critico, tendono a finire un po’ accantonate. Magari con ruoli marginali, o talvolta soddisfatte ma dentro una loro nicchia, altre volte invece proprio estromesse, ma molto raramente le trovo in carriera o in ruoli ad alta visibilità, sempre più spesso occupati dai chiacchieroni, dagli yes man, dagli zerbini arroganti coi deboli e servili coi potenti e dai narcisisti che annunciano ogni respiro su Linkedin.
Purtroppo anche i social hanno avuto il loro peso. In un mondo dove sempre meno l’accento va sulla produzione (tanto dell’essenziale è già stato inventato e automatizzato), le economie vivono sempre più di carta, chiacchiere e fumo, che in modo elegante chiamiamo “marketing”. E’ una lotta al coltello di chi urla più forte, con i social che premiano le personalità narcisistiche, allineate al pensiero che la maggioranza vuole ascoltare o più esibizioniste e disposte ad accantonare ogni forma di decoro per qualche click.
Si tratta solo di una naturale deriva tecnologica dei nostri media? Credo di no. Penso semmai che anche questi algoritmi siano programmati per sostenere un progetto intenzionale di attacco al merito, particolarmente nel mondo occidentale e poi in quello orientale alleato degli USA, attacco che parte dall’accademia e si estende a tutto il mondo del lavoro. E perché mai?
Abbiamo ormai una vera e propria oligarchia globalista tecnocratica di miliardari, a prevalenza americana, che ha bisogno di governi alleati deboli e succubi. E quindi di leader deboli, pensati a tavolino per un pubblico social e rincoglionito dagli stessi.
Occorre comprendere che la classe politica di molte nazioni alleate degli USA viene istruita, o meglio indottrinata, nelle accademie americane. Harvard fra tutte, da cui proviene anche gran parte della classe politica di Singapore, sempre più a immagine e somiglianza culturale degli USA, sebbene gestita meglio amministrativamente.
Guardiamo in faccia questi leader. Pita Limjaroenrat, prossimo Primo Ministro Thailandese, sostenuto non a caso dai giovani che passano più tempo su Instagram che sui libri. Laureato ad Harvard, rampollo di famiglia ricca, con certe foto online che a me ricordano più un cantante K-Pop che un leader politico. Oppure Rishi Sunak, pure lui ricco, laureato a Stanford, che ora guida l’Inghilterra. Guardo il viso e se non sapessi chi fosse, penserei sicuramente a un comico, se non direttamente a Mister Potato Head, il personaggio di Toy Story. O Zelensky, che da attore di una commedia in cui diventa Presidente, poi diventa effettivamente Presidente (una sceneggiatura che solo gli americani potevano scrivere) e che ormai gira in mimetica pure nel bagno in quello che sta diventando un photo-op perenne.
Guardo queste figure di leader fatti nel laboratorio hollywoodiano-accademico americano, e poi li confronto con una statua di Giulio Cesare. Lo sguardo ieratico, quello di leader che passavano da scuole come lo Stoicismo, o l’Epicureismo, che insegnavano il controllo delle proprie emozioni, l’essere compassati, forti interiormente, equanimi, e tutte quelle virtù che sono incompatibili con lo starnazzare quotidianamente su dei social per accattivarsi un pubblico di ritardati e rammolliti da anni di comfort, pagati a debito e carta stampata.
Ecco, di questo hanno paura le elites. Che valorizzando di nuovo il merito, tornino anche gli uomini forti: leader veri, in grado di mettere in discussione questo intero sistema distopico tecnocratico elitario. Ecco perché il rallentamento (o la fine) del benessere diffuso, ha reso questa guerra al merito ancor più aspra, perché dai tempi difficili potrebbero emergere nuovi leader e di nuovi leader abbiamo disperatamente bisogno. Come dice un proverbio Arabo: i tempi difficili creano uomini forti, gli uomini forti creano tempi facili. I tempi facili creano uomini deboli, gli uomini deboli creano tempi difficili.
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