Per una di quelle insondabili coincidenze astrali, o forse perché tutti abbiamo la pelle scorticata sul tema, negli stessi istanti in cui, e come sapremo all’arrivo, a Dacca viene messo in scena l’ennesimo copione del terrore che forse sarebbe meglio iniziare a definire con il suo sostantivo corretto, e cioè ‘guerra’, sul treno Roma Milano viene avviata una lunga discussione sull’identità occidentale attorno a un bicchiere di spumante.
BISOGNA SCUSARSI PER UN BICCHIERE? «Scusi, eh?» proferisce il mio dirimpettaio, di età incerta fra i cinquanta e i sessanta, la plancia del pc ricoperta di adesivi della Fifa, all’indirizzo del ragazzo con il tasbeeh fra le mani e un grosso logo Ralph Lauren sulla t-shirt che mi sta seduto accanto prima di berne un bel sorso con evidente soddisfazione. L’altro lo liquida con un gesto magnanimo, prima di tornare a fissare ostentatamente il panorama fuori dal finestrino, il più possibile discosto dalla bionda che gli siede a fianco, cioè io.
Resisto forse cinque minuti; poi, incoraggiata dallo sguardo corrucciato del quarto occupante del salottino, chiedo se fossero davvero necessarie le scuse all’indirizzo del ragazzo, che ne frattempo si è addormentato pesantemente con la testa appoggiata al vetro. Ne nasce una lunga diatriba attorno al consumo di vino che il mio dirimpettaio, dopo essersi dichiarato «cattolico fervente» con il tipico sorriso mesto e beato dei martiri del Mantegna, ritiene incompatibile con la presenza di un islamico.
UN CATTOLICO CHE DIMENTICA L’EUCARESTIA. Che ci si trovi in Italia e non in Arabia Saudita durante il ramadan, per lui non fa alcuna differenza. Ritiene necessario scusarsi prima di bere vino in presenza di un musulmano, dice, «per egoismo», per sentirsi «meglio con se stesso» e «in armonia con il creato». Gli sfugge il nesso fra lo spumante che ha davanti e il vino eucaristico, sostanza e corpo di Cristo e che dunque, per lui cattolico tanto fervente, bevanda impura e sconcissima non dovrebbe essere, così come non lo è per noi laici che in tanti viviamo di vendita di vino, anche nelle regioni islamiche, per dire e anche se non si dice mai e anche se io bevo solo acqua gassata.
L’analfabetismo religioso aumenta la paura del diverso

Michel Houellebecq. Nel riquadro, il suo ultimo romanzo: Sottomissione.
Sorride, tiene il punto, la butta sul Tavernello di «tante povere parrocchie», rotea gli occhi, guarda il cielo. Fosse stato ai Musei Capitolini qualche mese fa per la visita del presidente iraniano Rohani, questo bel tipo avrebbe infilato braghettone perfino alle colonne. Lui, gli islamici vuole ingraziarseli, è evidente. Gli adepti ad altre religioni chissà. Gli sfugge la kasherut.
UN SOTTOMESSO ALLA HOUELLEBECQ. Gli sfugge, soprattutto, il motivo per cui, magari sottomesso come nel romanzo di Houellebecq ma almeno per par condicio, dovrebbe scusarsi con un ebreo osservante casomai gli capitasse di mangiargli davanti un astice alla catalana o un piatto di seppie in umido (all’ebreo delle sue scuse importerebbe un fico, ma stiamo appunto parlando per ipotesi). Ignora l’esistenza della kasherut, cioè delle norme sull’idoneità dei cibi a cui si rifanno gli ebrei; in realtà non è del tutto certo che con loro si «sentirebbe meglio» scusandosi.
Da questo, possiamo tirare una prima conclusione, e cioè che gli islamici sanno comunicare meglio di tutte le altre fedi, forse perché comunicano spesso tagliando la gola di chi non conosce il Corano e perciò fanno infinitamente più paura di tutti gli altri. Mamma li turchi, mentre gli ebrei nei forni.
CONTRO IL PIETISMO IGNORANTE. Come, invece, il cattolicesimo abbia potuto stemperarsi in questo pietismo ignorante e buonista è qualcosa che non si spiega, e che deve limitarsi a constatare, anche Alessandro Saggioro, professore associato di storia delle religioni alla Sapienza, che consulto in fretta e furia via whatsapp. Mentre il treno supera Bologna, e a Dacca gli ostaggi vengono sgozzati uno dopo l’altro, da un incontro sullo sciamanesimo in Islanda Sagioro scrive di «analfabetismo religioso ormai inscritto nel dna degli italiani» e delle sue «gravi conseguenze sulle loro prospettive identitarie».
CANCELLARSI RAFFORZA I PREGIUDIZI. In questa mancanza di identità, di conoscenza profonda delle proprie radici, della propria storia ancora prima che della religione liberamente scelta, sottolinea come si alimentino le paure ataviche del ‘diverso’, si cullino timori e ansie che finiscono per esprimersi o nella sottomissione grottesca del permesso richiesto per bere un bicchiere di vino o all’opposto nel rifiuto riottoso, ottuso, dell’immigrazione purchessia. Il treno entra alla Stazione Centrale di Milano. Benarrivati e arrivederci. Arriva un altro whatsapp: «Più ci si specchia in un ‘altro’ generico e che non si conosce, più si dà forza ai pregiudizi. Con il risultato che, nello specchio, non riusciamo a riconoscere neanche noi stessi».
Da: Lettera43