Il viaggio è speciale quando il dono più grande sono gli altri

Nella sua lettera d’addio al tennis, Roger Federer esordisce con queste parole: fra tutti i doni che il tennis mi ha fatto negli anni, il più grande, senza dubbio, sono state le persone che ho incontrato lungo il viaggio.

Un viaggio sportivo di oltre vent’anni, che ha scandito anche le tappe della mia vita privata e professionale, che quasi in parallelo, si districava fra luoghi agli estremi dei cinque continenti, proprio come fa il circuito tennistico.

Per questo, al momento del suo ritiro, sono affiorate alla mente tutte le grandi vittorie e le ancor più epiche sconfitte, seguite in televisione da località disparate: una stanza d’hotel a Jakarta durante un viaggio di lavoro, un bar sulla spiaggia di un’isola delle Filippine con la  compagna, un pub di Singapore con un amico israeliano, dal vivo sul centrale di Roma o sugli spalti dell’enorme Arthur Ashe di New York, con i compagni del Master. O andando ancor più indietro insieme a gruppi di sconosciuti sulle sedie di un bar a Sant’Ilario d’Enza, accumunati dal tifo per il campione. Ma l’ultima danza, la sconfitta più epica e amara di tutte, la finale di Wimbledon 2019 persa con due match point a favore, dopo aver dominato tecnicamente una battaglia di cinque ore contro Djokovic, quella la vidi da un pub sulla strada per Bruxelles, di ritorno da Eperney con in valigia alcune bottiglie di champagne. Proprio nella visita alla cantina incontrai, con sorpresa, un siciliano a farmi da guida e si creò un legame speciale, visto che era pure un fan di Federer. E dopo la sconfitta bruciante fu proprio il mio nuovo amico ad indicarmi come addolcire la serata ormai amara, ricordando quanto detto da Napoleone dello champagne: nella vittoria lo meritiamo, nella sconfitta ne abbiamo bisogno.

Voltandomi indietro verso il sentiero degli ultimi vent’anni, mi sono accorto che sì, il dono più grande sono state le persone incontrate. Del lungo viaggio di Natale in Myanmar con i miei, non ricordo né la posizione che ricoprivo in azienda né tantomeno lo stipendio dell’epoca, sebbene sia certamente grato del fatto che fossero tali da potermi permettere quella vacanza. Ma ricordo distintamente una mercante di Yangon che mi vendette qualche dolcetto in un sacchetto misero sulla strada e a cui diedi per errore l’equivalente di un euro, e lei mi corresse perché il prezzo era invece di un centesimo. Rifiutò persino di tenere la somma, anche quando le dissi che il resto non mi interessava.

Se ripenso alla “magia”, quella cosa che ho sempre inseguito in tutti i luoghi, fossero la terrazza di un grattacielo di Bangkok, le viuzze pitturate di Melbourne, o l’atmosfera quasi voodoo delle notti di Bali, quella magia alla fine l’ho trovata solo quando c’era l’energia di altre persone. I doni più grandi sono ricordi di sorrisi, di risate, oppure talvolta di silenzi: come quando sul punto più alto di Koh Phi Phi Island, stavamo seduti su una roccia fra turisti che mai si erano visti prima e mai più si sarebbero rincontrati, ad ammirare il tramonto fintanto che il sole non si inabissava nelle acque, uniti da un silenzio ed un senso di unione quasi mistici.

Oppure ripenso ad un amico che ti bussa alla porta senza preavviso nella serata più cupa e solitaria di New York quando fuori nevica, o ancora conoscere un giovane viaggiatore olandese su una pagoda tailandese e dal chiedere una semplice foto, iniziare a parlare del senso della vita, mentre si ammira il sole che cala sull’intera città, per poi rincontrarlo ad Hong Kong mesi dopo,  fra i neon delle vie umide e congestionate di Wan Chai, e  infine ritrovarsi a distanza di anni per cena a Reykjavík, con  famiglie e amici, a condividere questa tappa di un road trip dell’Islanda, senza che quel senso di amicizia fosse stato scalfito ne’ dalla lontananza, dal silenzio o dal tempo.

Ebbene, i ricordi sarebbero infiniti, ma se tutti noi chiudiamo gli occhi, che si tratti di un bacio, una parola, un messaggio, una pacca sulla spalla, uno scambio di sguardi, il nostro viaggio è speciale quando il dono più grande sono gli altri, e quando noi sappiamo essere dono per loro.

Il successo, la carriera, la fama, spesso possono supportare il nostro viaggio, possono permetterci di trasformare il nostro sogno in realtà, sempre se ci applichiamo e sappiamo lottare, ma non saranno mai i doni ultimi.

Oggi purtroppo vedo un’ombra lunga che si spande nel mondo, materialista, senz’anima, che come in un piano demonico ci vuole ingannare, confondendo con l’effimero e il vuoto nelle nostre menti ciò che davvero è prezioso, rendendoci sempre più soli, individualisti, spaesati: alla fine, più poveri.

Federer, che in carriera ha collezionato oltre cento trofei, ed accumulato più di mezzo miliardo di dollari, ci ha regalato – dopo le tante emozioni del campo – un ultimo dono, forse il più importante: ricordarci, anche alla fine del viaggio più ricco e luminoso, che cosa conti e splenda davvero.

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